Quei sposini tacai come cerese,[1]
Delizia e maravegia del paese,
M'à stuzzegà gersera l'estro mato
De sbozzarve in do segni el so ritrato.
5In mezo a un gran consegio
De mutrie e ciaciaroni sfogonai[2]
Che parla in diese per capirse megio,
Vestia de zalo[3] vedarè una vecia
Con vose gnaga[4] da sbusar la recia,
10Un par d'ocieti grisi e petolai,[5]
Un muso tuto grespe e caramai;[6]
E cussì garba,[7] in tanta so malora,
Che 'l pessecan la spuarave fora.
El cavalier par un osel de note,
15Anzi un automa co le suste[8] rote:
Il componimento Angelica e Medoro è in dialetto istriano. Come si capirà facilmente, volli comprendere in questa raccolta anche le poesie che Giglio Padovàn scrisse in dialetto istriano, senza sottilizzare sulle sfumature che possono esistere fra l'una e l'altra parlata (l'istriano ha maggior impronta veneta, mentre dal triestino non sono sparite tutte le traccie dell'antico friulano o ladino) e ciò per non defraudare i lettori di alcuni fra i componimenti suoi più graziosi. Questo, che l'autore chiama Fantasia, è invece un quadretto dal vero. Quando il poeta la scrisse, circa quarantacinque anni or sono, tutti ne riconobbero gli originali. Lui era un funzionario della Luogotenenza austriaca: la dama, molto più vecchia di lui, sembra, una sua parente. La descrizione delle due figurine è fatta con evidenza maravigliosa.