La putta onorata/Atto terzo
Edission original: |
"Tutte le opere" di Carlo Goldoni,
a cura di Giuseppe Ortolani, |
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ATTO TERZO
canbiaSCENA PRIMA
canbiaCamera in casa del Marchese con tavolino e lumi.
La marchesa Beatrice e Scanna usuraio.
BEAT. Venite, signor Scanna, venite in questa camera, che parleremo con più libertà.
SCAN. Mi vegno dove che la comanda.
BEAT. Ho premura di venti zecchini. Li ho perduti al gioco sulla parola. Mio marito non me li vuol dare; ed io, che sono una dama d'onore, voglio in ogni forma pagare.
SCAN. Benissimo, la gh'ha rason. Ma come vorla che femo a trovar sti vinti zecchini?
BEAT. Far un pegno.
SCAN. Gh'ala zoggie?
BEAT. Ho il mio fornimento. Non lo vedete?
SCAN. Ben. Su quello troveremo i vinti zecchini.
BEAT. Ed ho da privarmene?
SCAN. Se la vol i bezzi.
BEAT. (Oh maledetto gioco). (da sé)
SCAN. Cossa disela?
BEAT. (Se non pago il debito, non potrò più giocare, non potrò più andar alla conversazione). (da sé)
SCAN. (Eh, la vien zo senz'altro). (da sé)
BEAT. Via, tenete, vi darò gli orecchini. (Già si usano anco di perle false). (da sé)
SCAN. Oh! i recchini no basta. Cossa porli valer? Vinti ducati?
BEAT. Il diavolo che vi porti! Vagliono cento scudi.
SCAN. Ma i diamanti un zorno i val, un zorno no i val.
BEAT. E così, che facciamo?
SCAN. La me daga anca el zoggielo.
BEAT. Vi darò per venti zecchini il valore di cento doppie?
SCAN. Ben, se la vol de più, ghe darò anca de più.
BEAT. Io non ho bisogno d'altro che di venti zecchini.
SCAN. Questi la li ha da pagar; e no la vol gnente per tentar de refarse?
BEAT. Via, ne prenderò trenta, ma quanto vi darò di usura?
SCAN. Usura! La me perdona, mi no togo usura.
BEAT. Dunque...
SCAN. La farà el solito, quel che fa i altri. Sedese soldi per ducato el primo mese, e do soldi per ducato i altri mesi per un anno, con patto che se no la le scode drento de l'anno, le zoggie sia perse.
BEAT. E se io le riscotessi in tre o quattro giorni?
SCAN. Tant'e tanto bisogna pagar i sedese soldi per ducato del primo mese.
BEAT. E non è usura?
SCAN. El xe negozio.
BEAT. Vi vuol pazienza. (Maledetto gioco!) (da sé)
SCAN. Se la vol i so bezzi, ghe li dago subito.
BEAT. Mi farete piacere.
SCAN. La vegna qua, zecchini tutti de peso. (I cala almanco sie grani l'un). (da sé)
BEAT. Mi fido di voi.
SCAN. Uno, do, tre, quattro... (numerando i zecchini)
SCENA SECONDA
canbiaIl marchese Ottavio e detti.
OTT. (Mia moglie con un ebreo! Vediamo). (in disparte)
SCAN. Cinque, sie, sette, otto... (come sopra)
OTT. (Buono! E sono zecchini!) (osserva in disparte)
SCAN. Nove, diese, undese, dodese... (come sopra)
OTT. Signora moglie, mi rallegro con lei.
BEAT. (Che ti venga la rabbia! È venuto a tempo). (da sé)
OTT. Zecchini in quantità! Brava.
BEAT. Ma! quando il marito non ha discrezione, conviene che la moglie s'ingegni.
OTT. Fa qualche buon negozio?
BEAT. Impegno le mie gioje.
OTT. Fa bene. E per quanto, se è lecito?
BEAT. Lo saprete quando le averete a riscuotere.
OTT. Ma non si potrebbe sapere adesso?
BEAT. Signor no.
OTT. Galantuomo. Voi che avete più giudizio di lei, ditemi la verità, quanto le date?
SCAN. Trenta zecchini.
OTT. Ed ella vi dà in pegno le gioje?
SCAN. Lustrissimo sì.
OTT. Bene. E quanto paga d'usura?
SCAN. Non posso sentir sto nome d'usura. Avemo fatto el negozio de sedese soldi per ducato el primo mese, e do soldi i altri mesi per un anno.
OTT. Sì, questo è un negozio che l'ho sentito a proporre ancora, e so che in un anno si viene a pagar d'usura il trenta per cento; e riscuotendo il pegno il primo mese, si paga in ragion d'anno il cento cinquanta per cento. Signora marchesa, ella fa de' buoni negozi.
BEAT. Il bisogno me lo fa fare.
OTT. E tutto per il giuoco.
BEAT. Quando la cosa è fatta, è fatta. La riputazione vuole che io paghi.
OTT. Ma è una bestialità il pagar tanto di usura.
SCAN. Maledetto quel nome di usura!
BEAT. Ma cosa si può fare?
OTT. Direi... piuttosto venderle quelle gioje.
BEAT. E poi?
OTT. E poi ne compreremo dell'altre.
BEAT. Ho paura di non vederle mai più.
OTT. Sapete che ho messo in vendita il mio palazzo. Vi comprerò gioje molto più belle di queste.
BEAT. Ma a venderle vi vuol tempo.
SCAN. Se la vol, mi le comprerò, e ghe darò i so bezzi subito. Quando domandela?
OTT. Bisogna farle stimare.
BEAT. Io non ho tempo da perdere.
SCAN. Se la vol, ghe darò intanto i trenta zecchini.
BEAT. Datemene quaranta.
SCAN. Che ghe li daga? (ad Ottavio)
OTT. Sì, contentatela.
SCAN. La toga; dodese la ghe n'ha avudo, e questi altri vintiotto fa quaranta.
OTT. Andiamo a far stimar le gioje.
BEAT. E il resto chi l'avrà?
OTT. Poco resto vi può essere, è vero, signor Scanna?
SCAN. Oh, poco seguro. Fazzo riverenza a vussustrissima. (Che bon matrimonio!) (parte)
OTT. (Son arrivato in tempo. Il resto non è tanto poco; servirà per i miei bisogni, e per procurar di rasciugar le lagrime di Bettina). (fra sé, parte)
BEAT. Chi sa? Con ventidue zecchini posso ritentar la mia sorte. Ma se il marchese non mi ricompra le gioje, ha da sentire. Chi è mai questa creatura che piange? Pare che sia in questa casa. Mi sembra che la voce venga da qualche altra camera. Qui vi è qualcheduno senz'altro. Alla voce sembra una donna. Sarebbe bella che mio marito... Non sarebbe la prima volta. Voglio chiarirmi. Se la porta sarà serrata, la farò buttar giù. Sugli occhi miei? In casa mia? Se vi è una donna, si pentirà di esser venuta. (parte)
SCENA TERZA
canbiaAltra camera del marchese con due porte, con tavolino e un lume.
Bettina sola.
BETT. Oh povereta mi! Cossa mai sarà de mi? Dove songio? In che casa songio? Chi mai xe stà che m'ha menà via? Mia sorela dove mai xela? Cossa dirà sior Pantalon? El mio Pasqualin cossa diralo? Cossa faralo, le mie raìse? Povero Pasqualin, dove xestu, anema mia? Perché no viestu a agiutar la to povera Betina, che te vol tanto ben? Se el lo savesse dove che son, son segura ch'el se buterave in fuogo per mi. Chi mai xe stà quel can, quel sassin, che m'ha fato sta baronada? Gh'ho paura ch'el sia stà quel marchese. Ma pussibile che in sta casa no ghe sia nissun? Oe, zente, agiuto, averzime, muoro. Maledeti sti omeni! O co le bone o co le cative, i la vol venzer seguro. Ma co mi nol farà gnente sto can. S'el me vegnirà intorno, ghe darò tanti pizzegoni e tante sgrafignaure, che ghe farò piover el sangue. (si sente sforzar una porta) Oimei! Coss'è sta cossa? I buta zoso la porta. Agiuto per carità, che no posso più.
SCENA QUARTA
canbiaLa marchesa Beatrice e detta.
BEAT. Chi siete voi?
BETT. Una povera puta.
BEAT. Che fate qui?
BETT. Gnente.
BEAT. Chi v'ha qui condotta?
BETT. No so gnanca mi.
BEAT. Chi aspettate?
BETT. Nissun.
BEAT. Ma chi diavolo siete?
BETT. Mi gh'ho nome Betina, e son...
BEAT. Non occorr'altro; so chi siete. Siete la cicisbea del mio signor consorte.
BETT. E chi xelo sto sior, che nol cognosso?
BEAT. Cara! Nol conoscete? Il marchese di Ripaverde.
BETT. Sielo maledio, che nol posso veder, né sentir a minzonar.
BEAT. Nol potete vedere, e venite di notte in sua casa?
BETT. Questa xe casa de sior marchese?
BEAT. Per l'appunto.
BETT. Adesso vegno in chiaro de tuto. Elo xe sta quelo che m'ha tradio. Donca ela xe mugier de sto sior marchese?
BEAT. Sì, son quella. Che vorreste voi dire?
BETT. Cara lustrissima, no la me abandona, ghe lo domando per carità. Mi son una puta onorata. So mario ha fato de tuto per tirarme zozo. No ghe xe riuscio co le bone, e lu m'ha fato robar.
BEAT. Posso creder veramente quanto mi dite?
BETT. Ghe zuro da puta da ben, che la xe cussì; e se no la me crede, la lo vederà.
BEAT. Quand'è così, m'impegno di proteggervi e di darvi soccorso.
BETT. La sapia, lustrissima, che son promessa con un puto che la cognosse anca ela.
BEAT. Chi è questi?
BETT. Pasqualin, fio del so barcariol.
BEAT. Ed egli vi corrisponde?
BETT. Assae; ma tuto el mondo ne xe contrario.
BEAT. Lasciate far a me, che prometto di consolarvi. Or ora devo uscire di casa. Sola qui non vi voglio lasciare. Verrete con me.
BETT. Farò quel che la comanda, lustrissima.
BEAT. Verrete meco alla commedia.
BETT. Oh, la me perdona, no ghe son mai stada. Le pute no le va a la comedia.
BEAT. Le putte non devono andare alle commedie scandalose; ma alle buone commedie, oneste e castigate, vi possono, anzi vi devono andare; e se verrete meco, sentirete una certa commedia che forse vi apporterà del profitto.
BETT. Farò quel che comanda vussustrissima. Ma sior marchese?
BEAT. Mio marito verrà, non vi troverà più, e averà da far meco.
BETT. E el mio povero Pasqualin?
BEAT. Lo farò cercar da suo padre...
BETT. Oh, anca quel omo, se la savesse co contrario ch'el me xe!
BEAT. Non saprà per qual causa io lo cerchi.
BETT. Oh siela benedeta! La me farà una gran carità.
BEAT. Avete fame? Volete mangiare?
BETT. Eh, lustrissima, no, grazie. Più presto che andemo via, xe megio.
BEAT. Quand'è così, andiamo. Ma sento aprire quest'altra porta.
BETT. Giusto per de qua i m'ha ficà drento anca mi.
BEAT. Sarà mio marito, senz'altro.
BETT. Adesso stago fresca; scampemo via, per amor del cielo.
BEAT. No, faressimo peggio.
BETT. Velo qua ch'el vien.
BEAT. Spegniamo il lume. Fate quello che vi dico io, e non dubitate. (spegne il lume)
BETT. Adesso sì che me vien l'angossa.
SCENA QUINTA
canbiaIl marchese Ottavio dall'altra parte, e dette.
OTT. Bettina, ehi Bettina. (cercandola al buio)
BEAT. Rispondetegli. (a Bettina, sotto voce)
OTT. Bettina, dico. (come sopra)
BETT. Lustrissimo.
OTT. Perché avete spento il lume?
BEAT. (Parla nell'orecchio a Bettina, insegnandole cosa deve rispondere)
BETT. L'ho stuada, perché me vergogno. (ad Ottavio)
OTT. Dove siete? Ehi, Dove siete?
BEAT. (Come sopra)
BETT. Son qua.
OTT. Datemi la vostra manina.
BEAT. (Come sopra. Bettina non vorrebbe, ed ella la spinge)
OTT. Oh cara questa bella manina! (crede Bettina, ed è la Marchesa) Mi volete voi bene?
BEAT. (Come sopra)
BETT. Sior sì.
OTT. Sarete mia?
BEAT. (Come sopra)
BETT. Sior sì.
OTT. Avete avuto dispiacere, che io v'abbia condotto via?
BEAT. (Come sopra)
BETT. Sior no.
OTT. Dunque avete gusto?
BEAT. (Come sopra)
BETT. Sior sì.
OTT. Voi mi consolate, la mia cara Bettina.
BEAT. (Tira in disparte Bettina, e le parla come sopra)
BETT. Caro elo, son stufa de star al scuro. Vorave che l'andasse a tor una luse. (ad Ottavio)
OTT. Chiamerò qualcheduno.
BETT. No no, che no vogio esser vista.
BEAT. (Come sopra)
BETT. Che el vaga elo a torla.
OTT. Volentieri; vado subito. (Guardate come si è facilmente piegata. Eh, così è: colle donne bisogna usar violenza). (da sé, in disparte)
BETT. El xe andà via. (a Beatrice)
BEAT. Venite, venite meco. Passate in quest'altra camera, ed aspettatemi.
BETT. Ma no voria che nascesse...
BEAT. Non dubitate, lasciate la cura a me.
BETT. Se no moro sta volta, no moro mai più. (entra nell'altra camera)
SCENA SESTA
canbiaLa marchesa Beatrice, poi il marchese Ottavio col lume.
BEAT. Oh, che caro signor consorte! Se l'aveva rinserrata in casa l'amica; ma eccolo che viene col lume.
OTT. Oh, eccomi qui... (crede trovar Bettina, e vede Beatrice)
BEAT. Che mi comanda, signor consorte?
OTT. Niente. (guardando qua e là per la camera)
BEAT. Che cerca vossignoria?
OTT. Niente. (come sopra)
BEAT. (Mi pare alquanto confuso). (da sé)
OTT. (Come diavolo è qui venuta costei!) (da sé, osservando come sopra)
BEAT. Ha perduto qualche cosa?
OTT. (Io ho pur parlato con Bettina). (da sé) Sì, signora, ho perduto.
BEAT. E che mai?
OTT. Ho perduto una gioja.
BEAT. La gioja che avete perduta, l'ho ritrovata io, ed è in mio potere. E voi, signor marchese, pensate meglio, che non si portano di quelle gioje in casa; che alla moglie si porta rispetto, e non le si dà questa sorta di mali esempi. (entra nella camera ove è Bettina, e serra la porta)
OTT. Io resto stordito, come la marchesa abbia saputo di questo fatto! Come ha potuto penetrare... Ma! Io all'oscuro ho parlato con Bettina; e ora dov'è andata? Ah sì, la marchesa me l'ha involata! Ma prima ch'ella me la faccia sparire da questa casa, vo' ritrovarla, vo' meco condurla. Son nell'impegno; se vi andasse la casa, voglio superare il mio punto. (parte)
SCENA SETTIMA
canbiaSegue notte. Strada.
Catte in zendale.
CAT. Dove songio? Dove vaghio? Co sto bocon de scuro no cognosso gnanca le strade. Almanco i impizzasse i ferali; ma s'aspeta la luna, ghe vuol pazenzia! Dove mai sarà la mia povera sorela! Chi mai l'ha menada via? Ah, certo no pol esser stà altro che sior marchese. Ma senza farne morir de spasemo, no podevelo dirmene una parola a mi, che ghe l'averave menada fin a casa? Me despiase de mi, poverazza, che no so dove andar, e gh'ho paura de dover star tuta sta note a chiapar i freschi. Almanco passasse qualche bona creatura, che se movesse a compassion.
SCENA OTTAVA
canbiaLelio e detta.
LEL. Quanto mi piace la mia cara Venezia! Non me ne ricordavo più, perché son tanti anni ch'io manco. Ma queste donne particolarmente, queste donne, queste veneziane farebbero innamorare i sassi. Dove si trova mai tanta grazia? tanto brio? tanto garbo? Anco le brutte fanno la loro figura. Si sanno così bene accomodare, che incantano. Veder quelle che chiamano putte, puttazze. Oh, che roba! Oh che aria! Che vite! Che visi! Che balsamo! Che vitello da latte!
CAT. (Questo el me par un foresto). (da sé)
LEL. Parmi di vedere una donna. A tutte l'ore s'incontrano di queste buone fortune. Mi dispiace che son senza denari.
CAT. Vogio passarghe darente, per veder se lo cognosso. (s'accosta a Lelio)
LEL. Signora, così sola?
CAT. Pur tropo, per mia desgrazia.
LEL. Che cosa l'è succeduto?
CAT. Ho perso la compagnia, e no so andar a casa.
LEL. Vuol che io l'accompagni?
CAT. Magari.
LEL. Ha ella cenato?
CAT. Sior no.
LEL. Né anch'io.
CAT. Cénelo la sera?
LEL. Quando posso.
CAT. Come, quando el pol?
LEL. Intendo dire quando ho denari.
CAT. Sta sera xelo senza?
LEL. Son asciutto come esca.
CAT. (Ho trovà la mia fortuna). (da sé)
LEL. Vuol restar servita a bevere un bicchiere di moscato?
CAT. Mo se el dise che nol gh'ha bezzi?
LEL. Io mi fido di lei.
CAT. Che paga mi?
LEL. Pagheremo una volta per uno.
CAT. (Siestu maledetto!) (da sé) El moscato me fa mal.
LEL. In casa averà del buon vino.
CAT. Piccolo, la veda, piccolo.
LEL. Oh quanto mi piace il vino picciolo!
CAT. (L'è un sior degnevole. Oh, che bel forestiero che m'ho trovà!) (da sé)
LEL. Vuol che andiamo?
CAT. (Per no andar sola, bisognerà che gh'abia pazenzia). (da sé)
LEL. Io son così colle donne: quando ne ho, ne spendo; quando non ne ho, lo dico, e se me ne danno, ne prendo.
CAT. Mo a Venezia el ghe ne troverà poche, che ghe ne daga.
LEL. Favoritemi della mano.
CAT. Son qua. (Podevio trovar de pezo?) (da sé)
SCENA NONA
canbiaPantalone con lanterna, e detti.
PANT. Ah cagadonao, ti xe qua? (a Lelio)
LEL. (Maledettissimo incontro! Mio padre ha preso a perseguitarmi). (da sé, fugge via)
PANT. Siora Cate, cossa vedio? Qua sè a st'ora? Cossa xe de Betina? Cossa fevi qua co mio fio?
CAT. Oh, caro sior Pantalon, quante lagreme che ho trato! Quanta passion ch'ho abuo! Semo stae chiapae tute do, come che l'ha visto. I n'ha menà no so dove, e i m'ha desligà mi, e i ha fato che vaga via. De mia sorela no ghe n'ho mai più savesto né niova, né imbassada.
PANT. E co mio fio cossa fevi?
CAT. So fio el xe quel martuffo(82)? Mi gnanca no lo cognosso. A st'ora no ghe vedo, e no so andar a casa. El s'aveva esebìo de compagnarme, e mi m'aveva tacà al partìo.
PANT. Gran desgrazià che xe colù! Siora Cate, mi gh'ho do gran travagi. Uno xe aver un fio cussì baron, che de pezo no se pol dar. L'altro aver perso cussì miseramente Betina. Per el primo sta note ghe remedierò. Ho trovà i zaffi, gh'ho dà la bona man, acciò che i lo liga, e che i ghe fazza per sta volta un poco de paura, e un'altra volta po ghe la farò dasseno. Per el secondo no so cossa dir; no so da che cao principiar. Gh'ho suspeto sul marchese. Dubito de Pasqualin. Gh'ho dei omeni che zira per mi. Farò tanto, che vegnirò in chiaro de la verità; e chi me l'ha fata, zuro da mercante onorato, che me l'averà da pagar. (parte)
SCENA DECIMA
canbiaCatte sola.
CAT. Oh che zuramento che l'ha fato! No digo che no ghe sia dei mercanti onorati, ma mi so, che se ho volesto sta carpeta in credenza, ha bisognà che la paga do lire al brazzo de più de quel che la val. Sto zendà i me l'ha venduo per zendà dopio da Fiorenza, e el xe da Modena; e co ghe porto el laorier indrio, i dise sempre che cala el peso, per tegnirme qualcossa su la fatura. No se pol più viver; i vol tuto per lori. Ma intanto stago qua al fresco, a parlar da mia posta co fa le mate. Vedo a vegnir un feral; sel va da le mie bande, ghe vago drio.
SCENA UNDICESIMA
canbiaLa marchesa Beatrice mascherata in bauta, Bettina in vesta e zendà colla moretta, zervitore col lampione, e detta.
BEAT. Così è. L'acqua mi fa male: non posso andar in barca e vado per terra.
BETT. Dove andemio, lustrissima?
BEAT. Alla commedia.
BETT. La me compatissa, no me par che la sia sera da andar alla comedia.
BEAT. Vi dirò: vado al teatro e vi conduco meco appunto per consegnarvi ad una mia parente, che troverò colà senz'altro.
BETT. Se me trova sior marchese, povereta mi!
BEAT. Se siete meco, non ardirà né men di mirarvi.
CAT. Betina, xestu ti?
BETT. Oimei! Tremo tuta. Chi è che me menzona?
CAT. No ti cognossi Cate to sorela?
BETT. Vu sè?
CAT. Son mi, sorela.
BETT. Oh cara, lassè che ve chiapa a brazzacolo.
CAT. Sì, vien qua che te basa. (si abbracciano)
BEAT. Chi è questa?
BETT. Mia sorela.
CAT. Son una dona da ben, sala? Cossa gh'ala paura? (alla Marchesa)
BETT. Coss'è de Pasqualin? (a Catte)
CAT. Oe, no l'ho gnancora visto. M'ho perso in sta cale, e no so né dove che sia, né dove che vaga.
BETT. Sorela cara, no posso più. Se no lo vedo, muoro seguro...
CAT. Dime, come xela andada?
BETT. Te conterò. Oh che cossazze!
CAT. E el marchese?
BETT. Giusto elo, quel bogia.
CAT. Ghe xe radeghi(83)?
BETT. In materia de che?
CAT. Se ti m'intendi?
BETT. Oh, gnente.
CAT. No xe puoco.
BETT. Gramarzè a sta lustrissima.
CAT. Chi xela?
BETT. So mugier.
CAT. Oh, cossa che ti me conti!
BEAT. E così, l'avete ancora finita? (a Bettina)
BETT. Adesso, lustrissima, vegno. E de sior Pantalon?
CAT. L'è passà de qua giusto adesso. El deventa mato.
BETT. Poverazzo! El me fa pecà.
BEAT. L'ora vien tarda. La commedia sarà principiata. (a Bettina)
CAT. Ti va a la comedia? (a Bettina)
BETT. Sì, per forza.
CAT. Oh, se podesse vegnir anca mi!
BETT. Lustrissima, se contentela che vegna anca mia sorela?
BEAT. Senza maschera?
CAT. Eh, m'imbaucherò col zendà, no la se indubita.
BEAT. Andiamo. (s'avanza col servitore)
BETT. No ghe n'ho gnente de vogia. (a Catte)
CAT. Vien via, che rideremo.
BETT. Pianzerave più volentiera.
CAT. Uh, che cossa freda!
BEAT. Andate avanti, ragazza.
BETT. Lustrissima sì. Quanto più volentiera andarave a filò col mio Pasqualin!
CAT. Anca mi, lustrissima?
BEAT. Sì, anche voi.
CAT. Siela benedetta!
BEAT. Voglio vedere se in questa notte posso terminar quest'affare. Già Pasqualino è avvisato. (partono tutte tre col servitore)
SCENA DODICESIMA
canbiaVeduta del Canal Grande con gondole. Da una parte il casotto di tavole, che introduce in teatro. Più in qua la porta per dove si esce di teatro, ed il finestrino ove si danno i viglietti della commedia. Un ragazzo, che grida di quando in quando: A prendere i viglietti, siore maschere; diese soldi per uno, e el pagador avanti, siore maschere. Dall'altra parte una banchetta lunga per quattro persone. Ed i fanali qua e là, come si usa vicino ai teatri.
Passano varie maschere, e vanno alcune a prendere viglietti, indi entrano nel teatro, e alcune vanno senza viglietti; poi passa Nane barcaiuolo col lampione conducendo maschere al teatro; poi il servitore con il lampione, conducendo la marchesa Beatrice, Bettina e Catte al teatro; poi Menego Cainello con il Marchese e quattr'uomini, che vanno al teatro. E il Ragazzo di quando in quando grida: a prender i viglietti ecc.; poi si sente di dentro gridare: Qua, se la va fuora. S'apre una porta, da dove escono Menego e Nane coi lampioni
MEN. Compare Nane, sioria vostra.
NAN. Sana, compare Menego.
MEN. Olà, v'èla passada?
NAN. De cossa?
MEN. De quel bocon de criada.
NAN. No me ne recordo gnanca più, varè.
MEN. Co semo in pope, nemici, co semo in tera, amici e fradei carnali.
NAN. Bisogna de le volte criar per reputazion, siben che no se ghe n'ha vogia.
MEN. Per cossa credistu che no abia dà indrio? Per el paron? Gnanca in te la mente. Made. L'ho fato, perché ghe giera cinquanta barcarioi che me vedeva, e se siava, i me dava la sogia.
NAN. Gh'astu el paron a la comedia?
MEN. Compare sì.
NAN. Anca mi son con un foresto, che xe arivao sta matina. L'ho servio de l'altre volte, e nol me fa torto.
MEN. La stichelo?
NAN. Aria granda.
MEN. Gh'alo la machina(84)?
NAN. No se salo.
MEN. Caro ti, cóntime.
NAN. Andemo al maga.
MEN. Made, tiremose a la bonazza(85).
NAN. El zagnuco refila(86).
MEN. Che cade. Con un scalfo de chiaro(87), la giusteremo. Vien qua, picolo dai boletini. (al Ragazzo)
RAG. Piase?
NAN. Chiò sto da vinti, vane a chior un boccal de quel molesin. Dighe al capo che te manda Cainelo; ch'el te daga de quelo che el dà ai so amici. Astu inteso?
RAG. Sì ben.
MEN. Fa presto; no te incantar, che te darò una gazzeta(88).
RAG. In do salti vago e vegno. (parte)
MEN. Sentemose, camerata?
NAN. Son qua.
MEN. Dime, com'èla de sto foresto?
NAN. Ben. El me dà a mi solo un ducato al zorno, e da magnar e da bever; e col vol andar a do remi, el paga lu quel de mezo.
MEN. Bisogna ch'el sia molto rico.
NAN. Ho sentio da un camerier de la locanda, ch'el xe del so paese, che i soi no i gh'ha pan da magnar.
MEN. Donca, come la stichelo?
NAN. Oe, co le sfogiose(89).
MEN. E el mantien la machina?
NAN. O ela lu, o lu ela.
MEN. Tienla conversazion?
NAN. Flusso e reflusso.
MEN. A la locanda?
NAN. Sì ben, a la locanda. Cossa credistu che sia le locande?
MEN. Xela bela sta to parona?
NAN. O de so piè o de so man(90), la fa la so maledeta figura.
MEN. Abitazzi?
NAN. Aria e ganzo.
MEN. Zogie?
NAN. Diamanti da Muran(91) superbonazzi.
MEN. El paron xelo zeloso?
NAN. Sì ben, zeloso. El se leva la matina a bonora, e el dà liogo a la fortuna.
MEN. Senti, anca el mio paron xe de bon stomego.
NAN. Ma la to parona no xela so mugier?
MEN. Sì ben, ma cossa importa? I usa cussì. Moda niova, moda niova.
NAN. Come stalo de bezzi el to paron?
MEN. Giazzo tanto che fa paura(92).
NAN. E sì mo, tanto lu che ela i fa una fegurazza spaventosa.
MEN. Senti, un de sti zorni: ora mi vedete, ora non mi vedete.
NAN. Vorlo falir?
MEN. Eh, sti siorazzi no i falisse, i se tira in campagna, i licenzia la servitù, i zuna un per de ani, e po i torna a Venezia a sticarla.
NAN. I dise che so mugier la zioga a rota de colo.
MEN. E chi ha d'aver, aspeta.
NAN. L'altro zorno m'è sta dito che i ha fato un disnar spaventoso.
MEN. Domandeghelo al galiner, che ancora l'ha d'aver i so bezzi del polame.
NAN. E ti i to bezzi te li dali?
MEN. Piase! Se i vol che laora.
SCENA TREDICESIMA
canbiaIl ragazzo col vino, e detti.
RAG. Oe, son qua col vin.
MEN. Bravo.
RAG. Me deu la gazzeta?
MEN. Che cade! Son galantomo. Tiò, vate a tior tanti pomi cotti. (gli dà due soldi)
RAG. A prender i viglietti, siore maschere. Oe, me lasseu vegnir drento? Xe deboto quattr'ore. (al portinaro che apre, ed entra)
MEN. Sana, capana(93).
NAN. Pro fazza.
MEN. A vu, compare. (a Nane)
NAN. Salute. (beve)
MEN. Vostra.
SCENA QUATTORDICESIMA
canbiaTita dalla porta del teatro, e detti.
MEN. Compare, vegnì a nu. (a Tita)
TIT. Compare, pania?
NAN. Degneu vegnir a nu? (a Tita)
TIT. Son qua.
MEN. Senteve, che tanto se paga. (gli danno da bere)
TIT. Bon da amigo, ma bon do volte. (bevendo)
MEN. A sti musi cussì i ghe lo dà.
NAN. Calcossa ve l'avè godesta in teatro.
TIT. Mare de diana! Che ho ridesto.
MEN. Gh'è zente?
TIT. A marteleto(94).
MEN. Piaseli?
NAN. Poverazzi! i se inzegna; ma ti sa cossa xe sto paese. Qua se fa acceto a tuti; lori se sfadiga, e la zente ghe dà coragio. (si sente di dentro in teatro batter le mani, e dir bravo, bravo)
MEN. Oe, senti che bocon de fracasso! (si torna a sentire l'applauso)
TIT. Via, che la vaga.
MEN. Ghe xe assae barcarioi drento?
TIT. Pi de cento.
MEN. Co la piase ai barcarioi, la sarà bona. Nualtri semo queli che fa la fortuna dei comedianti. Co i ne piase a nu, per tuto dove ch'andemo, oh, che comedia! oh, che comedia! oh, che roba squesita! In teatro, co nu sbatemo, sbate tuti, e anca a nu ne piase el bon. No ghe pensemo né de diavoli, né de chiassi; e gh'avemo gusto de quele comedie che gh'ha del sugo.
SCENA QUINDICESIMA
canbiaUn capitano degli sbirri co' suoi uomini, poi Lelio, e detti.
NAN. Oe, la peverada(95).
TIT. Fali la sguaita a qualchedun?
NAN. Chi sa, i va cercando el mal co fa i miedeghi.
MEN. Eh gnente. I va per tuti i teatri, e i fa ben. Cussì i tien neto dai ladri.
LEL. (Oh cari! Tre barcaruoli che se la godono assieme! Oh che bella conversazione!) (da sé)
MEN. Chi èlo sto sior, che ne va lumando(96)? (a Nane)
TIT. Comandela barca?
LEL. Padron Tita, siete voi?
TIT. Oh sior Lelio, la xe ela?
MEN. Chi èlo? Qualchedun de queli de la marmotina? (a Titta)
TIT. El xe patrioto nostro venezian, arlevao a Livorno.
NAN. Col xe venezian, ch'el vegna. Comandela? (a Lelio)
MEN. Via, a la bona; e viva la patria. (a Lelio, e gli danno da bere)
LEL. Questo vin el ghe xe bon, el ghe me piase assai(97). (vuol parlar veneziano, e non sa)
MEN. Me ghe xe consolo tanto. (burlando)
LEL. Quando voleseu che andesemo a vogar in palugo?
MEN. Sala voghesar? (come sopra)
LEL. Una volta ghe xera bravo.
NAN. Oh che caro papagà!
LEL. Quanto che me piaseu! Me lasseseu che me sia sentao?
MEN. Mi lasso che ve comodar. (Lelio siede)
LEL. Caro vechio, dasemene un altro fiao. (torna a bere)
NAN. Comodeve, compare desnombolao.
SCENA SEDICESIMA
canbiaUna spia va dagli sbirri e accenna aver scoperto Lelio. Essi vanno per prenderlo. I barcaruoli lo difendono; e col boccale, coi sassi e colla banca fanno fuggire gli sbirri, dicendo: Via, cagadonai. Via, lassèlo, furbazzi, dai ecc. Dopo fuggiti gli sbirri:
NAN. Vittoria, vittoria.
LEL. Bravi, bravi, ve ghe son obligao.
MEN. E viva nu.
TUTTI E viva i barcarioli, e viva.
SCENA DICIASSETTESIMA
canbiaLa marchesa Beatrice mascherata cogli abiti di Bettina, Bettina con quelli della marchesa, in bauta, e il servitore col lampione escono dal teatro.
BETT. Perché mai ala volesto far sto barato? Mi sti abiti no li so portar.
BEAT. Siamo state vedute da mio marito: mi sono accorta che ci ha conosciute, e per questo, serrato il palco dinanzi, ho fatta la mutazione degli abiti.
BETT. Mo perché?
BEAT. Il perché lo saprete poi.
BETT. Mia sorela dove xela andada?
BEAT. L'ho mandata a casa mia colla contessa mia cugina, acciò non frastorni quanto abbiamo colla medesima concertato.
BETT. (Gran note per mi xe questa!) (da sé)
SCENA DICIOTTESIMA
canbiaPasqualino e detti.
PASQUAL. Oh fortuna traditora, dove mai xe andada la mia Betina?
BETT. (Caro el mio ben, se te podesse dir che son mi!) (da sé)
BEAT. (Ecco appunto Pasqualino; l'ho mandato a cercar apposta). (piano a Bettina)
BETT. (A posta? Per cossa?) (piano a Beatrice)
BEAT. (Apposta per voi).
BETT. (Per mi? Ma cossa ghe n'ogio da far?)
BEAT. (Non vi ha promesso?)
BETT. (Lustrissima sì)
BEAT. (Bene, andate con lui).
BETT. (Oh, questo po no. No l'è gnancora mio mario)
BEAT. (E per questo?)
BETT. (Son una puta onorata).
BEAT. (Bel carattere ch'è costei!) (da sé)
PASQUAL. La parona m'ha mandao a cercar. La m'ha fato dir che l'aspeta qua. Cossa mai vorla? Ah dove xe mai andada la mia Betina? Xela scampada via? M'ala tradio? M'ala abandonà? Sento che me manca el respiro.
BEAT. (Miratelo, se non fa compassione). (a Bettina)
BETT. (Se podesse, lo consolarìa).
BEAT. (Perché non potete?)
BETT. (Perché no son so mugier).
BEAT. (Almeno datevi da conoscere).
BETT. (Se me dago da cognosser, lu me vol ben a mi, mi ghe vôi ben a elo, no so cossa che possa succeder).
BEAT. (Siete troppo rigorosa).
BETT. (Son una puta onorata).
BEAT. (Costei è rara come la mosca bianca). (da sé)
PASQUAL. Quele do maschere le me varda. Saravela mai la parona? Me par che quelo sia el so tabaro. E quel'altra co la vesta e col zendà e co la moreta saravela mai Betina? Oh, el ciel volesse che la fusse ela! (da sé)
BEAT. (Eh via, finiamola). (a Bettina)
BETT. (No certo, più tosto scampo via). (a Beatrice)
SCENA DICIANNOVESIMA
canbiaIl marchese Ottavio dalla porta del teatro con i quattro uomini, e detti.
OTT. Ecco mia moglie con Bettina. Amici, state pronti se vi è bisogno. (agli uomini)
BETT. Oh povereta mi! Chi è ste maschere?
BEAT. Non vi muovete.
OTT. (Prende con forza per mano la Marchesa, credendola Bettina, e dice ) Vi ho finalmente trovato. Ora non mi fuggirete più dalle mani. E voi, signora maschera, (a Bettina, credendola la Marchesa) se non avrete giudizio, averete a far meco. Pasqualino che fate qui?
PASQUAL. Giera... cussì... andava a la comedia. (confuso)
OTT. Date braccio alla marchesa, e accompagnatela a casa. Giuro al cielo, me la pagherete. (a Bettina non conosciuta) Venite, anima mia, andiamo a felicitare il nostro cuore. (parte colla Marchesa e cogli uomini)
SCENA VENTESIMA
canbiaPasqualino e Bettina
PASQUAL. Lustrissima, son qua a servirla. La me favorissa la man. Come! No la vol? No la se degna? El paron me l'ha comandà, da resto... Almanco la me diga per cossa la m'ha mandà a chiamar. Gnanca? Pazenzia. Quela maschera col zendà chi mai gièrela? Betina? No credo mai. Ah, che ho perso la mia Betina! no so più in che mondo che sia. Se no la trovo, prego el cielo che me manda la morte per carità. Ghe vien da pianzer? (Bettina piange) La varda, le lagreme ghe corre su la bauta; la se cava el volto, e la se suga. No la vol? No so cossa dir. No la vol andar a casa? (Bettina fa cenno di sì) Sì? La servirò. No la vol man, no? (Bettina ricusa la mano) Pazenzia! Se no trovo Betina, son desperà. (parte)
BETT. Desmascherarme? No certo. Do morosi de note soli? Se el me cognoscesse, no so come l'anderave. (parte)
SCENA VENTUNESIMA
canbiaCamera terrena in casa del marchese Ottavio.
Menego col lampione, e Lelio
MEN. Donca vostro sior pare ve vol far cazzar in preson?
LEL. Pur troppo.
MEN. Mo perché?
LEL. Perché è pazzo. Pretenderebbe che io facessi a suo modo, e sento che la natura vi repugna.
MEN. Sentì, sior, mi v'ho defeso e v'ho liberao da le man dei zaffi, perché no i gh'aveva ordene de chiaparve, e perché la xe tropa temeritae de colori vegnir in t'un bozzolo(98) de galantomeni a far un afronto. Da resto ve digo che i fioi i ha da obedir so pare: e co i buta tressi(99), el pare fa ben a castigarli e no filarghe el lazzo, perché col tempo i fioi cattivi i se scusa col dir ch'el pare li ha mal usai.
LEL. Ma se tutto quello che piace a mio padre, non piace a me? S'io fossi, per esempio, vostro figlio, e avessi a fare la vita che fate voi, sarei tutto contento.
MEN. Poderia esser che ve stufessi, perché la xe una bela cossa vogar per spasso e per devertimento; ma vogar dì e note, a piove, a giazzi, a neve, col vento, col scuro, con quei malignazi calighi: el xe un devertimento, che se podesse, ghe ne farave de manco volentiera.
LEL. Tant'è; ognuno ha la sua passione, ed io ho questa.
SCENA VENTIDUESIMA
canbiaDonna Pasqua e detti.
PAS. Bara Menego, dove seu ficao? Tuto ancuo che ve cerco, e no ve trovo.
MEN. Oh mugier! Ben vegnua.
PAS. Vegnì qua, caro fio; xe tanto che no ve vedo, tochemose la man.
MEN. Sì, cara la mia vechieta, se cocoleremo(100), no ve dubitè.
LEL. (Quanto mi piace questa buona vecchia!) (da sé)
PAS. Cossa feu de sto bel zovene? (a Menego)
MEN. Ve piaselo?
PAS. Mi sì, varè.
MEN. Se volè, comodeve.
PAS. Lo poderave anca basar.
MEN. Che cade! Fe vu; aveu paura che sia zeloso?
PAS. (Se ti savessi chi l'è, no ti diressi cussì). (da sé)
SCENA VENTITREESIMA
canbiaPantalone e detti.
PANT. Messier Menego, se pol vegnir? (di dentro)
MEN. Chi è? Vegnì avanti.
LEL. Meschino me! Mio padre.
PANT. Ah, ti è qua, desgraziao? Me maraveggio de vu, messier Menego, che tegnì terzo a sta sorte de baroni, a sta sorte de scavezzacoli. Me xe stà dito, ch'el xe vegnù qua. Ho domandà de sior marchese. I m'ha dito che nol ghe xe, ma non ostante ho volesto vegnirme a sincerar. L'ho trovà sto desgrazià, sto furbazzo.
PAS. Sior Pantalon, cussì la parla de so fio?
PANT. Cara nena, se savezzi co mal che l'ha butà, me compatiressi. Quanto che giera megio che l'avessi sofegà in cuna.
MEN. Mo cossa gh'alo fatto?
LEL. Niente, niente affatto.
PANT. Gnente ti ghe disi, volerme bastonar?
LEL. Io non vi conoscevo.
PANT. E andar tutt'el dì all'osteria a ziogar a la mora, a bever sempre con zente ordenaria, no ti ghe disi gnente?
LEL. In questo avete ragione; ma io non ne posso far a meno.
PANT. Oh, ben. Co la xe cussì, parechiete de andar lontan da to pare. Za ho parlà col capitan d'una nave, che xe a la vela. Ti anderà in Levante; ti farà el mariner; cussì ti sarà contento.
PAS. (Oh povereto! No voria che ghe sucedesse sta cossa). (da sé)
LEL. Io in Levante? Quanto siete buono!
PANT. Vu in Levante, sior sì; e se no gh'anderè per amor, gh'anderè per forza. Aspetto che vegna a casa sior marchese per usarghe un atto de respeto, e po, sier poco de bon, vederè cossa ve sucederà.
LEL. Eh, giuro al cielo, non so chi mi tenga... (minacciando Pantalone)
MEN. Alto, alto, fermeve. (si frappone)
PANT. Come! A to pare? Manazzi a to pare? Adesso. Presto. I zaffi i xe da basso; oe, dove seu? Mio fio me vol dar. (verso la porta)
PAS. (Povero mio fio, son causa mi de la so rovina). (da sé)
MEN. Mo via, la se quieta, che giusteremo tuto.
PANT. No gh'ho bisogno dei vostri consegi. Quando un fio ariva a perder el respeto a so pare, nol merita compassion. Vogio che el vaga in preson.
PAS. Ah sior Pantalon, quieteve per carità.
PANT. No me stè a secar.
PAS. Volè in preson vostro fio?
PANT. Sì ben, in t'un cameroto.
PAS. Mo nol gh'anderà miga, vedè.
PANT. No! per cossa?
PAS. (Cossa fazzio? Parlio, o no parlio? Se taso, el va in preson. Oh povereta mi! Bisogna butarla fuora). (da sé) Perché nol xe vostro fio.
PANT. Nol xe mio fio? Oh magari! Come xela, nena, come xela?
PAS. Adesso che lo vedo in sto gran cimento, no posso più taser. Sapiè che mi ve l'ho baratà in cuna.
PANT. Mo de chi xelo fio?
PAS. De mi e de mio mario.
MEN. Piase? (a donna Pasqua)
PAS. Sì ben, caro vu, ho credesto de far ben. Ho fato aciò che el fusse ben arlevà; che no ghe mancasse el so bisogno; e che el deventasse un puto cossediè(101).
MEN. Brava! Avè fato una bela cossa.
PANT. E del mio cossa ghe n'aveu fato?
PAS. El xe Pasqualin, che crede d'esser mio fio.
PANT. Pasqualin? Sì ben. Ve credo. La sarà la verità. Pasqualin gh'ha massime civili e onorate, e costù gh'ha idee basse e ordenarie. Se cognosse in Pasqualin el mio sangue; in Lelio el sangue d'un servitor. Tegnive donca la vostra zogia, e lassè che me vada a strucolar(102) el mio caro fio. A costù ghe perdono, perché vedo che nol podeva operar diversamente da l'esser soo, e la natura no podeva sugerirghe gnente in mio favor. No ve domando mazor testimonianza del cambio; no meto in contingenza sto fato, perché cognosso da ste do diverse nature la verità. Ve digo ben a vu, dona mata, che meriteressi che la mia colera se revoltasse contra de vu, per esser stada la causa de sto desordene: ma el cielo v'ha castigà, perché tentando co ingano de aver un fio vertuoso e ben educà, el xe riuscio pezo assae che se l'avessi arlevà in casa vostra. Onde xe la veritae, che l'ingano casca adosso a l'inganador, che dal mal no se pol mai sperar ben, che de le done tanto xe cativo l'odio quanto l'amor, e che tute vualtre bisognerave meterve a una per una in t'un morter, e pestarve, come se fa la triaca. (parte)
SCENA VENTIQUATTRESIMA
canbiaLelio, Menego e donna Pasqua
LEL. Madonna, avete detto il vero, o l'avete fatto per liberarmi dalla prigione? (a donna Pasqua)
PAS. No, fio mio, pur tropo ho dito la veritae.
LEL. Io son l'uomo più contento di questo mondo.
MEN. No son miga contento mi.
LEL. Caro padre, perché?
MEN. Perché no me par de star tropo ben, aquistando sto bel fior de vertù.
LEL. Sentite, io ho fatto poco buona riuscita, perché mi volevano far fare una figura lontana dalla mia inclinazione. Datemi una berretta rossa, un remo in mano e una buona barcaruola al fianco, e vederete se riuscirò bene.
MEN. E ti voressi far el barcariol col linci e squinci?
LEL. El ghe xe, parlerò anca mi veneziano.
MEN. Via, che ti fa stomego. Siora mugier, l'avè fata bela.
PAS. Caro vecchio, no so cossa dir. Ho fato per far ben.
MEN. Sangue de diana, che me faressi vegnir caldo.
PAS. Via, caro mario, no andè in colera. Vogième ben che son la vostra vecchieta.
MEN. Se avesse perso un fio bon, me la lassarave passar: ma averghene trovà un cativo, la me despiase. Quanto giera megio che avessi tasesto, e che l'avessi lassà andar in tanta malora. (a donna Pasqua, e parte)
LEL. Questo mio padre mi vuole un gran bene.
PAS. Col tempo el ve vorà ben.
LEL. O bene o male, poco m'importa. Mi pare di esser rinato. Il dover far da signore mi poneva in una gran soggezione. Non vedo l'ora di buttar via questa maledetta perrucca. (parte)
PAS. Voleva taser, ma no ho podesto. A la fin, son so mare, e se perdo sto fio, no so se ghe n'averò altri. Chi sa! Se poderave anca dar. No son tanto vecchia; e el mio caro Menego me vol ben. Causa sto mio fio, che no se avemo malistente(103) vardà; ma dopo cena me lo chiapo, e me lo strucolo co fa un limon. (parte)
SCENA VENTICINQUESIMA
canbiaAltra camera del marchese Ottavio con lumi.
Il marchese Ottavio e la marchesa Beatrice, mascherata come sopra.
OTT. Via, la mia cara Bettina, siate buona, non siate così austera con me, che vi voglio tanto bene. Di che avete paura? Orsù, conosco la vostra modestia; mi è nota la vostra onoratezza. So che sdegnate di amoreggiare un ammogliato; e so che fin tanto che io non son libero, sperar non posso la vostra grazia. Non dubitate. Ve lo confido con segretezza. Mia moglie ha una certa imperfezione, per cui morirà quanto prima. (Convien lusingarla per questa strada). (da sé)
BEAT. (Si smaschera) Obbligatissima alle sue grazie. Uomo perfido, scellerato che siete! A questo eccesso vi trasporta una brutale passione? Desiderar la morte di vostra moglie, e forse ancor procurarla per non avere chi vi rimproveri d'un amor disonesto? Eccovi per la seconda volta scoperto, deluso e mortificato. Ma io questa volta ho rilevato l'indegno animo vostro. Voi aspirate alla mia morte, ed io prevalendomi di un tale avviso, ricorrerò per il divorzio; mi dovrete restituire la dote; mi dovrete dar gli alimenti, e lo sapranno i miei e vostri parenti; lo saprà tutta Venezia. Pensateci, che io ci ho pensato. (parte)
OTT. Ah, vedo che questo amore vuol essere la mia rovina. Mia moglie è indiavolata. Sarà meglio lasciare questa ragazza. Veramente io son un gran pazzo; far tanti stenti per una donna, in tempo che le donne son così a buon mercato. (parte)
SCENA VENTISEIESIMA
canbiaAltra camera del marchese Ottavio, senza lumi.
La marchesa Beatrice, conducendo per mano al buio Bettina mascherata.
BETT. Cara lustrissima, dove mai me menela?
BEAT. In un luogo, dove sarete sicura dalle persecuzioni di mio marito.
BETT. E Pasqualin dove xelo?
BEAT. Ditemi, se Pasqualino venisse a star con voi qui al buio, lo ricevereste volentieri?
BETT. Oh, lustrissima, no. No la fazza ch'el vegna, per amor del cielo.
BEAT. Possibile?
BETT. No certo.
BEAT. (Eppure io non lo credo). (da sé) Oh via, state qui un poco, che or ora verrò da voi.
BETT. E ho da star a scuro?
BEAT. Sì, per un poco. Fino che il marchese va a letto.
BETT. Oh povereta mi! Sta note m'ispirito.
BEAT. Abbiate pazienza, che sarete consolata. (parte)
BETT. (Si pone a sedere) Oh pazenzia benedeta, ti xe molto longa! So cossa ch'ho patio a vederme arente del mio Pasqualin e star imascherada, aciò che nol me cognossesse. Me sentiva strazzar el cuor. Ma l'onor xe una gran cossa!
SCENA VENTISETTESIMA
canbiaLa marchesa Beatrice con Pasqualino al buio, e detta.
BEAT. Pasqualino, trattenetevi in questa camera fin che io torno; e acciò non abbiate paura, vi serrerò colla chiave. (forte, sicché Bettina possa sentire)
PASQUAL. Ma perché ogio da star qua?
BEAT. Lo saprete poi. Addio, buona notte. (parte, e chiude l'uscio)
BETT. (Oh povera Betina! Adesso stago fresca). (da sé)
PASQUAL. Anca questa la xe bela. La me cazza in t'una camera a scuro, senza dirme el perché? Cossa ogio da far qua solo e senza luse? Oh, se qua ghe fusse la mia Betina, saveria ben cossa far! Ma sa el cielo dove che la xe. Eh, senz'altro quela cagna sassina la m'ha abandonà, la m'ha tradio.
BETT. (Oh povereta mi, no posso più!) (da sé)
PASQUAL. Credeghe a le done! Tanti pianti, tanti zuramenti, tante mignognole(104), e po tolè, la me l'ha fata, la m'ha impiantà.
BETT. (No, anema mia, che no t'ho impiantà). (da sé)
PASQUAL. Ma chi l'averave mai dito! Una puta tanto da ben, che no la me voleva in casa mi per paura de perder la reputazion, che gnanca dopo che gh'ho dà el segno, no la me voleva tocar la man, andar via, scambiar vita, precipitarse, perder l'onor?
BETT. (Oimè, che dolor! Oimè, che tormento!) (da sé)
PASQUAL. Ah Betina traditora! Ah ladra, sassina del mio cuor!
BETT. (piange forte)
PASQUAL. Olà, coss'è sto negozio? Zente in camera? Qua ghe xe qualche tradimento. Agiuto. Chi è qua? (trova Bettina) Una dona? Oh povereto mi! Creatura, chi seu? Che fusse l'anema de Betina? Ma el xe un corpo e no la xe un'anema. Me sento che no posso più. Almanco per carità parleme, diseme chi sè. No la me responde. Coss'è sto negozio? Vedo passar una luse per el buso de la chiave. Oe, zente, agiuto, averzime.
SCENA VENTOTTESIMA
canbiaLa marchesa Beatrice con lume, aprendo la porta e detti.
BEAT. Che c'è, Pasqualino? Cos'avete?
PASQUAL. In camera ghe xe zente.
BEAT. E per questo?
PASQUAL. M'ha parso una dona.
BEAT. E bene?
PASQUAL. Mo chi xela?
BEAT. Guardatela.
PASQUAL. Ti ti xe, anema mia! (si getta ai piedi di Bettina)
BEAT. (Or ora muoiono tutti due dalla consolazione). (da sé)
PASQUAL. Mo perché no parlar?
BETT. Perché son una puta onorata.
BEAT. Veramente ora conosco che siete tale. Non avrei mai creduto che in una giovane e sposa, come voi siete, si desse tanto contegno.
PASQUAL. Come seu qua? Come via de casa?
BEAT. A suo tempo saprete tutto. Su via, premiate la sua onestà. Datele la mano di sposo.
PASQUAL. Son qua, viscere mie, se ti me vol.
BETT. Senza dota, come faremio? Sior Pantalon no me darà i dusento ducati.
PASQUAL. Sior Pantalon? Velo qua.
SCENA VENTINOVESIMA
canbiaPantalone e detti.
PANT. Vien qua, fio mio, lassa che te strucola e che te basa. (a Pasqualino)
PASQUAL. A mi, sior Pantalon?
PANT. Sì, dime pare, no me dir Pantalon. Dona Pasqua no xe to mare, la giera la to nena, e la t'ha baratà in cuna. Sì, che ti xe el mio caro fio. (lo abbraccia e lo va baciando)
BETT. Un'altra desgrazia per mi. Pasqualin no xe più mio mario.
PASQUAL. Oimè! Xe grando el contento, che gh'ho trovà un pare de sta sorte, rico, civil e amoroso; ma sto mio contento vien amarizà da un dolor che me dà la morte.
PANT. Per cossa, fio mio? Parleme con libertà.
PASQUAL. Savè quanto ben che mi vogio a la mia Betina; e sperava de averla per mugier, ma adesso che son vostro fio...
PANT. Adesso che ti xe mio fio, ti l'ha da sposar subito imediatamente. Betina merita tuto; no averave riguardo de sposarla mi, molto megio ti la pol sposar ti; fin che ti gieri un povero puto, fio d'un barcariol, no la voleva precipitar; adesso son contento, te la dago, e mi medesimo unisso la to man co la soa. (si avvicina)
PASQUAL. Oh cara! Oh che contento! (toccandole la mano)
BETT. Ahi, che moro da l'alegrezza! (sviene sulla sedia)
PANT. Acqua, zente, agiuto.
SCENA ULTIMA
canbiaIl marchese Ottavio, Catte, Lelio, Arlecchino, Brighella e detti.
Tutti corrono a vedere cos'è. Tutti procurano farla rinvenire con qualche cosa.
PANT. Aspettè, lassè far a mi, che gh'ho speranza de farla revegnir subito. Vien qua, caro fio. (a Pasqualino. Tira fuori una forbice, taglia un poco de' capelli a Pasqualino, li abbrucia e li mette sotto il naso di Bettina, che riviene) No ve l'ogio dito? Tiolè, imparè. L'odor de l'omo fa revegnir la donna. Sior marchese, za l'averà savesto...
OTT. So tutto. So che Pasqualino si è scoperto vostro figlio. So che è sposo di Bettina, ed io ne son contento. Anzi vi prego far sì che mia moglie mi perdoni le mie debolezze.
PANT. Ala sentio? (a Beatrice)
BEAT. Basta che mutiate vita, io vi perdonerò. (ad Ottavio)
OTT. In quanto a questo poi, se s'ha da mutar vita, l'abbiamo a far tutti due.
BEAT. Io m'impegno di farlo.
OTT. Ed io giuro di secondarvi.
MEN. (Zuramenti de zogadori e de marineri). (da sé)
LEL. Signori sposi, mi rallegro con voi. Amico, possiamo far negozio. Abbiamo cambiato condizione, possiamo ancora barattar gli abiti. (a Pasqualino)
PASQUAL. Tuto quel che volè; me basta la mia Betina.
LEL. Da qui a una settimana non direte così.
CAT. Siori, xeli contenti che diga do parole anca mi?
OTT. Sì, parlate pure.
CAT. Se fa le nozze senza un puoco d'alegria? No ghe xe quatro confeti con un puoco de cicolata? Almanco un goto de vin da bever.
PANT. Questa xe la solita lezion.
PASQUAL. M'arecordo del mio ducato.
OTT. Via, Brighella, fate portare quattro dolci del mio deser, un fiasco di vino buono. Messer Menico, andate anche voi.
BRIGH. (Parte)
MEN. Mi? A cossa far, lustrissimo?
OTT. A portar qualche cosa.
MEN. Mi a portar? La me perdona. I servitori de barca de la mia sorte no i porta. Fazza chi toca. Mi tendo a la mia barca. Ognun dal canto suo cura si prenda.
PANT. Xe la veritae, sala. I barcarioi che sta sul ponto d'onor, no i vol far altro che tender a la so barca.
OTT. Bene, io mi rimetto.
BRIGH. (Viene con altri servi con dolci e vino)
OTT. Date da bevere agli sposi, alla signora Catte, a tutti.
CAT. E viva i novizzi. (beve)
LEL. E viva gli sposi. (beve)
BETT. (Prende un bicchier di vino in mano, e rivolta all'udienza, recita il seguente
SONETTO
canbiaCo sto vin dolce un prindese vôi far,
Come el debito corre, a chi me sente
E un sonetto dirò, che no val gnente,
Ma che par sta occasion me pol bastar.
Vogio co le mie rime ringraziar
Chi xe verso de mi grato e indulgente,
E savendo che son insuficiente,
Tuti i difetti mii sa perdonar.
E se Puta Onorata adesso son,
A le pute voltar vogio el mio dir,
E dirghe do parole, ma in scondon.
Pute, da amor no ve lassè tradir:
Se onorate sarè, parerè bon,
Piuttosto che far mal, s'ha da morir.
Fine della Commedia.