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casa, essendo stato malà; ma poi dicesi non stè ésar nojosi; non siate nojosi, ecc. Il dialetto si vale tal volta nel verbo avér per essere. Ad es.: nol se n’à gnanca 'ncorto: non se ne è affatto (neanche) accorto; el m’à parso belo: mi è sembrato bello, ecc.

Per la pronuncia è da avvertire che, in generale (come di tutti i veneti) non esistono consonanti doppie; che poi la z, zeta, in Veronese si riduce, per lo più, uguale ad un s forte (sòcolo = zoccolo) o debole (esempio: in senoción: in ginocchione; sensíva: gengiva) ed il c segnato con la cedille francese ç si pronuncia per s dolce (çerto, çinque) ecc.

Sono da notarsi le forme negative de! modo imperativo; ad esempio no imparàr, non imparare, che si dice anche; no sta imparar; così no crédar, no sta a credar; no credì: non crediate; no stè sentir, non date ascolto (non sentite), non ascoltate. Le forme del participio passato si trovano: imparà o imparado; credù o credudo, sentì o sentido: g’ò sentì dir (opp. g’ò sentido a dir).

Naturalmente qui ci si attiene alla parlata cittadina, non a certe esagerazioni di pronunzia del tutto popolare come téra (terra) che diventa tara, e perfino il nome di Verona che sciattamente dicesi «Varona». Nella città stessa usansi le due forme in ado (stado, andado) e le tronche (andà, stà).


Uso del pronome CHE

Alla forma del pronome relativo che non corrisponde sempre in dialetto lo stesso valore grammaticale. Perfetta rispondenza si ha quando il che rappresenta il soggetto o l’oggetto (accusativo) nella proposizione. Es.: me piase i omeni che dise sempre la verità: mi piacciono gli uomini che (i quali) dicono ecc.; G’ò da caminar fin a quela casa che te vedi: devo andare fino a quella casa che (la quale) tu vedi. Ma altre volte il che del dialetto deve tradursi in italiano con altre forme del pronome relativo, come: Di cui, a cui, per cui ecc. secondo l’ufficio che fa nella proposizione; ed allora nella frase dialettale, il che si trova spesso accompagnato dalle particelle esplicative ghe e ne, apparentemente pleonastiche, ma in realtà vere rappresentanti del rapporto logico non sufficentemente indicato dal che: Es.: No farò despiasèr a quei che ghe vôi ben: Io non farò dispiacere a quelli ai quali (ovv. cui) io voglio bene. Altro esempio: Questo l’è l’omo, che ti te ghe ne disi mal: Questo è l’uomo del quale (di cui) tu dici male. Mi so la rasòn che i è vegnudi qua: «Io so la ragione per cui (per la quale, onde) sono venuti qui». Si noti il valore del prenome ne che va sempre unito alla particella pronominale ghe, la quale in questo caso non si traduce in italiano: es.: Ghe ne vôi ancora: io ne voglio ancora. Ed importa distinguere i casi nei quali il ghe è pronome e corrisponde a gli, le, loro, da quelli in cui è avverbio e corrisponde a ci o vi. Esempi: Ghe piase sta casa?: Le piace questa casa? — «No lo vedo e no ghe parlo mai: non lo vedo, e non gli parlo mai», — Se i te dise su, no sta badarghe: se ti biasimano, non badarci (non préndertene). — To pare el ne vol ben: tuo padre ci vuol bene.

Ghe va costantemente unito alle forme del verbo Aver, quando questo

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