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non mi andavano a genio, non ne capivo un bel nulla, e l'animo mio che tutto si consolava leggendo un canto di Dante o un'ode del Petrarca, restava muto e freddo davanti alle cifre. Io seguitai; e cominciai a studiare, a studiare, a studiare i poeti maggiori, e non incomodai più la musa per qualche tempo, e mandai a memoria con passione febbrile le cose loro più belle. Ridatomi a scrivere, nel 1884 i tipografi Usiglio e Diena si offerirono di pubblicare un volumetto di versi miei, e diedi loro le Rime Veneziane, cinquantadue piccole poesie scritte nella forma popolare della Vilota, somigliante al Rispetto toscano. Il mio amico Pompeo Molmenti le presentò ai lettori con poche e buone parole, il pittor Mainella ne illustrò alcune, e il tutto insieme non dispiacque, specie alle signore cui molceva l'orecchio la musica del dolce vernacolo lagunare, ed ebbe elogi dai fogli meglio in reputazione di serietà, sì che in breve tempo venne esaurita la prima edizione. Acquistò il diritto a pubblicar la seconda, emendata e accresciuta, il Sacchetto di Padova, e le accoglienze oneste e liete, per dirla alla dantesca, m'incuorarono a scriverne ancora, a tener viva ancora la tradizione della poesia veneziana. La quale si presterebbe a lungo discorso se i limiti d'una prefazione

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