e dell'Invidia, stampati prima ch'ei morisse, crediamo bene di non far motto veruno, anzi di arrogarci il diritto di declinare onninamente dalle tracce da esso segnate; e ciò per due ragioni di qualche peso. La prima, perchè trattandosi di un dialetto vivente, il migliore maestro della retta pronuncia è la pronuncia stessa di que' che lo parlano; la seconda, perchè v'ha delle voci la cui musica non può essere indicata a dovere dai segni di convenzione; intorno a che la maggior delle prove sta negli inutili sforzi del medesimo Autore. Opina, a cagione di esempio che ci, ce, equivalgano a tzi, tze; che le parole cinque, cerio, celeghe, suonino tzinque, tzerto, tzeleghe; che le voci occhi, recchie, schietta, chiapi, ec. vadano pronunciate alla toscana, e valgano quanto occi, reccie, s-cieta, ciapi ec. Ma chi evvi tra' nostri che possa menar buono un simile parere? E chi non riconosce come inesprimibile il modo con cui i Veneziani pronunciano questi vocaboli? Le sillabe ci, ce sono tali che nulla hanno di comune col zi, ze di taluno, col tzi, tze del Gritti, col ci, ce dei Toscani; e il chi, chià, chiè, chiò, chiù, perdono le native sembianze ove si vogliano unisoni col ci, cià, ciè, ciò, ciù, dell'idioma parlato lung'Arno. Nè più avveduto sarebbe chi vi
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