Oltre il Pavan, il dialetto Veneto a Vicenza si modifica alle volte per un altro ingrediente che vi s’intrude. È questo il Cimbro, lingua Teutonica che va tuttogiorno dileguandosi dai nostri monti e dai nostri piani, ma che ciò nulla ostante ha lasciato nei nostri mercati segni diversi.
Non isconobbi la grande utilità che tutti i Vocabolaristi filosofi sanno cogliere in lavori di simil fatta, per cui lasciato quasi da un lato l’antico scopo di essi, ch’era quello d’insegnare ai volgari la lingua nobile, mirano oggi a fare incetta delle voci che sono documenti storici di civiltà e di politica. I timori, le ire, le letizie, le superbie, le avventure di un popolo lasciano nella lingua sua alcuni vocaboli che, come le medaglie nei Gabinetti numismatici, ne conservano la memoria. Io sono troppo tenue letterato e filologo per vantarmi di avere cooperato un nonnulla a questo scopo, il più sublime a cui possa mirare un uomo dotto. Se qualche volta lo raggiunsi, spero che il lettore me ne saprà grado.
Io teneva nascosta questa fatica, e solo ne diedi indizio ove mi ha giovato ad altri esperimenti archeologici, co’ quali ho importunato alla stampa gli amici e mecenati miei; ma tre avvenimenti mi avvertirono ch’io diffidava a torto sull’importanza grande del mio lavoro. Mi avvidi da essi che il raccogliere le voci del mio paese era una nobile ed utile impresa, la quale non solo aggiungeva al Dizionario della illustre famiglia dei Veneti una eletta Appendice, ma illuminava eziandio la storia della imaginazione dei popoli, ed il processo logico e sentimentale della civiltà.
Il primo di questi avvenimenti si fu l’arrivo in Vicenza di un Principe Napoleonide, incettatore di libri di simil fatta, e che parti da essa città a mani vuote, vergognandosene i cultori tutti dei nostri studj patrj.
Il secondo fu il bel libretto del sig. Gabriele Rosa intitolato Documenti storici tratti dai vocaboli del dialetto del Lago d’Iseo, il quale mi convinse della più bella utilità che trar si possa dai monumenti vocali, e della ragione della fatica mia, fatta proprio sul suo disegno.
Il terzo fu il Saggio dei dialetti Gallo-Italici del signor B. Biondelli, dal quale è chiaro conoscere come si squarci il velo dei tempi studiando l’uso intellettuale e fonetico di un dialetto.
Stimolato da questi avvenimenti, pensai non di publicare l’Opera mia, poichè troppo vasta impresa sarebbe stata, e troppo inutile certo il porre sott occhio al lettore im infinito numero di parole d'oscura origine, e non ripassate dal coltello anatomico dell’analisi, o dal pressojo della sintassi, consolidate per cosi dire, agli occhi di un sistema o di un altro: piante secche, inutili a mostrarsi, ove non si dica la ragione o l’autore della loro