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Ma all’artista questo ritorno ideale non riusciva difficile, perchè Venezia, a malgrado delle cose belle che scomparvero e delle cose brutte che sorsero, è tra le grandi città italiane quella che conserva più di ogni altra le antiche sembianze. Voi incontrate ancora i campielli con le altane fiorite sopra i tetti e le ricamatrici o le perlaie sedute sulla soglia degli usci; i cortiletti ammattonati con la vecchia scala scoperta in un angolo e il pozzale scolpito nel centro; gli squeri dal gruppo d’alberi che proiettano la loro ombra sul canale verdastro, ove s’affonda a mezzo qualche carcassa impeciata; i traghetti ombreggiati dalla vite e animati da un dialogo mordace di gondolieri; e ancora nei giorni di sagra i davanzali si avvivano di stoffe d’ogni colore e svolazzano le orifiamme e luccicano i lampadari di Murano e le frittelle fumano sui larghi piatti di metallo e tra la folla ciarliera spiccano avvolte negli scialli rossicci, pagliefini, verdognoli, le ragazze dai capelli bruni o tizianescamente accesi...

Per il pennello, dunque, le cose e le figure potevano serbare pressochè immutata l’antica fisionomia. Ma le anime per il poeta? Potrà il poeta, pure adorando l’arte goldoniana, rispecchiarsi nella sua imperturbabile limpidità? No. Troppo i tempi sono diversi. Venezia ha visto cadere ingloriosamente la logora oligarchia; ha conosciuto i corrucci e i tormenti della servitù; si è levata a rivolta, sfidando la

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