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letto la veste non l’anima, le sillabe e le desinenze non l’intima voce. —

Ora, la letteratura veneziana vanta una tradizione classica, e le tradizioni classiche lasciano dietro a sè, almeno nei temperamenti più eletti, certe abitudini istintive di misura; esse sono come una educazione superiore, trasmessa di padre in figlio in una grande famiglia, che insegna a dire con garbo anche le cose più arrischiate. Non basta. Poichè ogni linguaggio si imbeve e colorisce delle sensazioni circostanti, dovete aggiungere alle tradizioni la natura sovranamente tranquilla di Venezia, quel delicato rammorbidimento di tutte le impressioni, che ne fa l’asilo ideale d’ogni anima offesa dal tumulto della vita presente. In una poesia che voglia interpretare davvero il genio di questa città, gli effetti troppo vistosi e romorosi sarebbero una violenta stonatura, come gli squilli e i clamori che echeggiano per le strade e le piazze delle metropoli moderne intronerebbero intollerabilmente orecchi e cervello nell’angustia pacata delle calli e dei campi veneziani. Di qui una nota peculiare della Musa veneziana: la carezza, — carezza di molli suoni e di tenere espressioni, di pensieri e d’immagini, di forme diminutive e vezzeggiative. Chi non ricorda, ad esempio, le ninne nanne popolari, ove il linguaggio materno trova similitudini ed accenti d’una dolcezza incomparabile?... Leggete ora la ninna-nanna che Riccardo Selvatico pone sulle labbra di una giovine madre intenta a rammendare il vestitino del bimbo, che non riesce a chetarsi nella sua culla:

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