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più intrepidamente logica, pure la sua invincibile gentilezza d’animo gli fece preferire la seconda.

Separandomi con cuore turbato dalle pagine che seguono — nel rileggere silenziosamente le quali, mi parve spesso di rivedere dinanzi a me il dolce amico scomparso, di riudire la sua voce, di conversare con lui in rinnovata intimità di spirito, di identificarmi quasi con la sua natura inquietamente coscienziosa e interrogatrice — una domanda mi viene alle labbra: sapranno tutti comprenderle? sapranno sentire le intime virtù ch’esse racchiudono?

Non tutti, di certo. Ma chi dalla statua sbozzata di un artefice che rivelò altrove la sua squisita perizia sia capace d’arguire le pure linee della statua compiuta, chi dai lampi intermittenti di una bellezza che sta ancora prendendo vita e coscienza tragga la chiara intuizione della bellezza definitiva, non potrà, credo, esitare. Egli coglierà ad ogni passo i pregi d’arte e di umana commozione che balenano in quest’opera e che sarebbero apparsi in pienezza di luce ove Riccardo Selvatico avesse potuto condurla a termine, disciplinandola col suo senso meditato di misura e di armonia.

Questo pensava un nobile maestro della scena, egli pure tristamente scomparso, che potè leggere il manoscritto: Giuseppe Giacosa. E il suo giudizio conforta e rinfranca il mio trepido amore, nell’ora in cui sottraggo alla pia custodia della famiglia e abbandono al libero giudizio del pubblico le care pagine repentinamente interrotte dalla morte.

A. F.


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