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          La Piazza e i so colombi inamorai,
          La gondola che fa la nina-nana...
          Fin i mussati che ve tien svegiai.

Venezia — dicevo ancora — è fra le grandi città italiane quella che forse meglio conserva l'antica fisionomia. Per ciò, in nessun altro luogo possiamo così facilmente rievocare le fole e le celie del buon vecchio tempo. I pittoreschi campielli, con le altane sui tetti e i balconi all'ingiro, pronti a popolarsi di teste scarmigliate e ad echeggiare di voci e di canti, si direbbero espressamente disposti a teatro di qualche gaia avventura. Arlecchino e Brighella e Pantalone sono morti, ben veramente morti; ma se potessero ritornare al mondo, ritroverebbero qui molte cose che predilessero; e queste dolci cose superstiti concedono a noi di risuscitare talvolta i loro fantasmi. Ecco, è un giorno d'inverno; un soffice strato di neve copre il lastrico del campiello, ricolma il coperchio del pozzo, arrotonda le sporgenze, persegue e ingoffisce le linee bizzarre dei fumaioli, stende un cuscino lungo i cornicioni e impone una cuffia ai fanali; le case all'intorno, mute, come prese da un brivido, hanno l'aria di stringersi più intimamente fra di loro; il tacito scenario bianco sembra nell'attesa di qualche singolare apparizione che lo ravvivi. Una finestra si apre cautamente, ne sporge un ceffo nero, un vestito dai colori appezzati; è Arlecchino che guarda e commenta lo spettacolo con una vena tra freddolosa, gastronomica ed erotica e con l'agile metro in cui si ripercuote l'irrequieto dinoccolio delle membra:

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