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Che cosa avrebbe potuto riuscire l’ultima concezione di Riccardo Selvatico, se la morte non l’avesse miseramente interrotta al cominciare del terzo atto e prima che sui due precedenti egli, lo scrittore inappagabile, avesse esercitato il menomo lavoro di revisione, di coordinazione e di lima? Chi abbia appena senso d’arte, potrà arguirlo da una sola scena: quella magistrale con cui s’apre l’atto secondo. — Gli amici dello scultore vengono ad assistere ai funerali della prima moglie. Parlano sommessi, là, nel piccolo appartamento, presso la stanza della povera morta e attraverso i loro dialoghi voi sentite le cose e le anime; sentite il peso lugubre di quell'ora, il turbamento di quell’intimità spalancata agli estranei, l’egoismo umano che non sa sopportare a lungo le costrizioni della pietà, l'egoismo artistico che in quella casa del dolore va istintivamente alla ricerca d’effetti pittorici: tutta la commedia che viene insinuandosi tra le pieghe della tragedia.

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Raffrontando alla giocondità de La bozeta de l’ogio, alla gentile emozione de I Recini da festa, lo spirito triste che pervade queste scene, par quasi di assistere, in compendio, all’evoluzione morale del tempo nostro, che cominciò infiorando la vita di ottimismo e finisce giudicandola col sorriso dell’ironia e co! sospiro della pietà. Ma se era mutata la psicologia, non mutavano sostanzialmente i criterî supremi d’arte. Mirare ai

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