I non più giovani lo ricordano vivamente: la fronte calva, la barba da asceta, il sorriso calmo ma bonariamente malizioso, la voce quasi fievole, ma che sapeva i contrasti e le sfumature e le piccole malizie sottili.
Giglio Padovàn, i cui versi ci appaiono tanto spontanei da farci giurare che furono scritti a penna corrente, era, invece, un limatore instancabile; ma era maestro nell'«arte di nascondere l'arte» e i suoi sonetti erano frutto di ripuliture, di correzioni, di rifacimenti assidui. Tanto, che la seconda sua pubblicazione di versi arriva a dieci anni di distanza dalla prima, ma questa volta con una precisa suddivisione delle poesie in due gruppi: quelle in dialetto istriano e quelle nel vernacolo triestino parlato dalla borghesia. Distinzione, quest'ultima, non inutile: giacche, contrariamente al Belli e al Fucini, Polifemo Acca non prende a prestito il linguaggio del popolo; non fa parlare il facchino, il monello, la fruttaiola, la portinaia. Simile in questo piuttosto ai poeti veneziani, schizza sapienti e gustosi ritratti, ma, nel farli, pènetra anche nell'anima delle figurine ritratte. Talvolta le fa parlare, monologare, e dal loro linguaggio balza fuori un