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da vana ambizione ma dal desiderio soltanto di far sapere che il vernacolo nostro, italiano come e più degli altri dialetti della penisola, aveva diritto di prender posto alla mensa comune.

Ma ecco altri poeti succedergli: Eugenio Barisòn, Ferruccio Piazza, Adolfo Leghissa, e, migliore di tutti questi, Flaminio Cavedali, dalla facile vena e dal verso limpido e ben tornito.

Nell'ultimo decennio, ecco poi una piccola schiera di poetesse salire, con fasci di vivide rose in mano, la non tanto facile vetta del Parnaso dialettale. Ecco: Gilda Steinbach ― Amoroso; Haydée ― l'Anonima Bruna, una Travetta.... Ed ecco, nello stesso tempo, i poeti-giornalisti: Augusto Levi e Carlo de Dolcetti; e gli studiosi del dialetto, come Giuseppe Stolfa: e i poeti letterari, divenuti dialettali quasi direi per un capriccio deviatorio della loro musa, più aristocratica: il Polli e la Maria Gianni.

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Ma siamo al 1914. Siamo al 1915.

Ecco la guerra coi suoi fantasmi, con i suoi incubi, col suo grigiore, con le ondeggianti alternative di rosee speranze e di cinerei timori,

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