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Qualità del testo: sto testo el xe conpleto, ma el gà ancora da vegner rileto.

 Edission original:   

Pietro BurattiPoesie e satire di Pietro Buratti veneziano, corredato di note preliminari ed annotazioni scritte dallo stesso autore, Amsterdam, J. Loocke, e figlio, 1823

 Fonte:

Indice:Poesie e satire di Pietro Buratti veneziano.pdf

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NOTA preliminare alle Barbareidi.

Il nobiluomo Almorò Barbero, è il soggetto delle due satire seguenti. Nella prima il poeta si propone di fare il suo ritratto nel momento ch'egli era innamorato di bella donna, cui faceva inutilmente la corte. L'eccessive stravaganze della sua lusuria sono autorizzate da testimoni oculari. Con tali svantaggi personali egli ebbe il coraggio di sacrificarsi più volte alla galanteria come risulta dalla satira seconda, dove il Poeta lo rappresenta sotto le mani di un certo Basilj celebre chirurgo Milanese, che lo persuade alla dolorosa operazione d'estrarsi vari denti guasti e di rimetterli posticci. Vi è innoltre il caso comico del bubone che si fece strappare prima della sua maturazione onde secondare il capriccio d'altra bella donna.

Barbareide prima


Nobil omo Almorò no ve inquietè
     Se chi taser non pol la verità
     Da quel tantin de cota che savè
     Voria vedere presto liberà
Amor no gà rason, vù replichè
     Amor ne la so rede m'à chiapà.
     Bravo Almorò, che almanco confessè
     Che a inamorarve un'aseno se stà.
E per provarve, che no digo mal,
     Se in casa no gavessi un spechio bon
     Eco el vostro ritrato al natural.
El muso no xe afato da cogion,
     Ma come ogn'omo gà de un'anemal
     Co el se esamina ben le proporzion
                              Del Congo o del Giapon

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     Coi ve facesse a posta un bel casoto
     Poderessi passar per un scimioto
                              E co le man in moto
     Mostrarghe a le donete la bravura
     De quel negozio che v'à dà natura.
                              Un fià da sepoltura
     Capace de infetar chi ve xè arente
     Ve esala da la boca senza un dente,
                              Che vostro veramente
     Chiamar se possa e che no sia pagà.
     Gavè l'ochio venereo, ma incantà,
                              Se tuto faturà,
     In testa un maledeto petaizzo
     E d'ogio e de manteca un tal pastizzo
                              Per andar col postizzo
     Che se sente el stomego voltar,
     E arischieria per Dio de gomitar
                              Chi volesse tocar.
     Ma zà vù per i altri ve tochè
     E sempre co le man ve palpugnè
                              Quel porco de topè,
     E come fussi ancora un bardasson
     Se in camera gh'è un spechio, de scampon
                              Gavè la presunzion
     De fissar l'ochio e de mostrar che sè
     Quasi pago de vù. Ma no vedè
                              Che in paese non gh'è
     Un piavolo più degno del Borgogna
     Un tanterulo, un mostro, una carogna
                              Da gatolo, da fogna
     Che spuzza più de vù? Quele cossete,
     Quei do penini e quelle dò gambete
                              Sielo pur maledete,

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     Le par da la natura fate a caso
     Le par fate de strazze o de bombaso:
                              E co de amor sè invaso
     L'è un bel vederve tapinar in piazza
     E sù le ventiquatro dar la cazza
                              A qualche putanazza.
     Come pò fe rider ai caponi
     Co ve missiè coi nostri galantoni
                              E ve scaldè i cogioni
     Per qualche bela che no xè per vù,
     E messo da milord o da monsiù
                              Voressi parar sù
     Quel tantin de negozio destinà
     Apena per le mone da mercà.
                              Per Dio me fe pecà
     Credeu mai che la vostra porcheria
     Staga nascosta e publica no sia
                              Sior matto buzevia.
     La scena che avè fato a quele dame
     Un zorno che rabioso da la fame
                              Co tanto de polame
     Come un'aseno in furia avè tentà
     De sedur da birbante l'onestà? 1
                              Ma tuto el mondo sà
     Che tute dò le ve l'à fata bela
     Che una và spuà su la capela 2
                              L'altra la campanela 3
     La s'à messo a tirar da desperada.
     Per no perderla marza una menada
                              Che alora ve siè dada
     Se vol comunemente. Ah porco infame!
     Lassè una volta, lassè star le dame,
                              Quele povere grame.

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     Zà no ve manca in cale dei zendai 4
     Co ghe toca per colmo dei so guai
                              E in pena dei pecai
     Vestirve da massera o da rufiana
     E come fussi vù la so putana
                              Dirve, porca vilana,
     A sta ora ti vien? Per colpa toa
     Varda in che stato xè la casa, scroa;
                              to sù, to sù la scoa.
     Neta ch'el can m'à spanto la pignata
     E quà in canton gh'è i stronzi de la gata
                              per Dio! no far la mata.
     Che deboto te mando a far squartar;
     E intanto da la vogia de sborar
                              el nobilomo alzar
     Se sente el cazzo, e in abito da dona
     Stomegando l'istessa buzzarona
     Contento come un fisolo el và in mona.

ANNOTAZIONI
  1. [p. 79]Sua eccellenza fidando nella mole straordinaria del suo membro non crede necessario di preparar la cosa, e lo caccia fuori senz'altri complimenti.
  2. [p. 79]La Manin nata Zerbi.
  3. [p. 79]La Diedo.
  4. Calle dei Zendai. Luogo una volta abitato dalle Meretrici.
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