Un capitolo vernacolo inedito contro il giuoco

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Un capitolo vernacolo inedito contro il giuoco
1905

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Antonio PilotUn capitolo vernacolo inedito contro il giuoco, Capodistria, Cobol e Priora, 1905

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Edission e fonte ▼
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Estratto dalle „Pagine Istriane“ Anno II N. 10-12



ANTONIO PILOT.



Un capitolo vernacolo inedito


contro il giuoco




CAPODISTRIA

TIPOGRAFIA COBOL E PRIORA

1905
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UN CAPITOLO VERNACOLO INEDITO
CONTRO IL GIUOCO



È del secolo XVI ed è noto che, anche allora, a Venezia, si giuocava a rompicollo: convegni pubblici e luoghi privati davan ricetto ai degeneri nepoti de' buoni padri e Temi invano guatava e fulminava atroce: non la berlina, non la deturpazione del naso e delle orecchie valevano ad estirpare la trista passione. Il lotto pubblico ereditato dai genovesi e accolto dal Governo nel 1590 aveva avuto, come precedenti, una specie di lotteria nel 1504 e una lotteria con premi nel 1521, la cui origine è narrata dal Sanudo come «novo modo di vadagnar metendo pocho cavedal a fortuna»1 e non sono le sole dal buon diarista ricordate. Noi riportiamo codesta in data Febraio 1522 assai interessante come quella che dà una chiarissima idea della cosa. Scrive adunque il Sanudo2:

«.... al presente in questa terra in Rialto non si atende ad altro ch'a meter danari su lothi, idest precii che si mette a tanto per uno, zoè soldi 10, soldi 20, soldi 31, lire 3, ducati uno et ducati do ad summum, e li precii montano chi più, chi manche fino 1500 ducati, zoè pani de seda e di lana, quadri, fodre di più sorte, argenti numero grandissimo, e di belle cosse, perle grosse et belle zoie di più sorte, pater nostri di ambracan et fino uno gato mamon vivo, cavalli, chinee etc. fornide et tutto si mette a lotho, sichè tutta la Ruga di orexi da una banda e l'altra è a questo, et assa' tapezarie, veste de seda, vesture de restagno e di seda, e altro. Item, la Ruga de' zoielieri; sichè non si pol andar per questi lochi, tante [p. 4 modifica]persone è che par una Sensa; et ogni zorno si cava boletini con dir pacientia quando non si ha nulla, et quando si ha precio si crida precio. Et aciò non siegua fronde, per li Capi di X fo comesso a li Provedadori di Comun sier Lunardo di Prioli, sier Daniel Trivixan, sier Filippo da Molin che non si potesse meter lotho alcun senza sua saputa, et che fosse messo le robe a precio justo, et mandano uno scrivan a veder cavar li boletini. Qual si cava a questo modo, videlicet, in una cosa di orinal è posto tanti boletini quanti hanno deposità, secondo il precio dil lotho, e uno putin il cava, et in consonantia cava di l'altro orinal, dove è tutti li boletini, zoè altratanti parte bianchi, parte segnati precio et il numero dil precio, e tutti è posti in una maieta. Hor cavando il nome, cava poi l'altro di la maieta; et se è bianco, uno ch'è lì crida pacientia; se è precio, si dice qual precio li tocha, e si fa nota et si porta a l'oficio di Provedadori di Comun et scontro, e chi vince va a tuor quello ha vadagnato. Molte donne ha posto danaro in ditto lotho; sichè tutti core a meter poco per aver assai, perchè si vede tal con un ducato averli tochà ducati 100 d'oro, e tal perle che val ducati 180 e via discorendo; e tal, che ha posto assa' boletini, et sempre li vien fuori pacientia. Chi mete in vari nomi; chi dice cose bizare et ha il boletin dil scontro. E tra le altre, Io fui ozi con uno mio carissimo amico et richo patricio, qual messe più boletini su argenti con questo moto «felix concordia» tamen non ave nulla fin qui; si resta a cavar li altri lothi, et non solum, a Rialto ma etiam a San Marco su la Piazza. E tal lothi Io Marin Sanudo fin qui non ho voluto risegar alcun danaro, perchè parmi sia cosa inlicita et forsi potria esser bararia; et è stà, per li Signori di note over Provedadori di Comun, preso uno che meteva più boletini di quello dovea nel lotho; fu posto in berlina etc.»

Parecohie notizie riguardanti il giuoco a Venezia nel secolo XVI possiamo ricavare anche da un pregevole articolo dello Zdekauer 3, il quale, lasciato da parte quello che s'esercitava con carte false o dadi viziati, lo suddistingue in tre forme: giuoco privato specialmente tra persone di bassa condizione in cui le somme, in generale, eran relativamente piccole; il [p. 5 modifica]giuoco ne' ridotti e convegni alcuni dei quali l'A. ricorda a S. Barnaba, ai Carmini, in Calle dei cinque a Rialto, a S. Geremia e a S. Moisè (nè i nobili disdegnavan talora compagnie men degne); finalmente, come terza foggia di giuoco, è annoverato quello che si compieva nei campi, sui ponti, sul cortili; i poveri frati dei S. S. Giovanni e Paolo vedevano il convento invaso da una frotta di giovani che si facevan lecito di sollazzarsi con la palla e mal fu per fra Martino che, volendoneli impedire, s'ebbe le busse in ricambio. Le gondole, gaie suaditrici d'amore, vedevano anche carte tremanti e dadi balzanti e il Palazzo ducale ancora poi che i gondolieri e i servi non sapevano come meglio ingannare la noia dell'attesa mentre i padroni lassù legiferavano, se non col giuoco. Chi voglia farsi esatto conto del come la Republica perseguisse i colpevoli non à che da scorrere nel recente volume di Giovanni Dolcetti4 l'appendice V (pp. 2-12 e sgg.) intitolata appunto «Legislazione sul giuoco» ove son accolti i vari decreti promulgati dal 1172 al 1797: nel 500, che a noi ora interessa maggiormente, ve n'à a dovizia. L'A. non li diede naturalmente per esteso: li restringe spesso ma non per ciò la fosca passione riesce men trista nell'eloquenza delle leggi tonanti a suo vitupero.

I nobili sorpresi nelle case da giuoco eran privati per 10 anni dagli uffici publici e condannati alla multa di 300 ducati d'oro, i popolani rei delle stesso delitto banditi per 10 anni dal territorio: gli accusatori e i denunziatori, come di rito, eran premiati (26 marzo 1506. Cons. X). Poco dopo tutti i giuochi venivano proibiti «excepiti che de balle et ballestre» e si aggravavano le pene precedenti: permettendosi solo «consueti et honesti zuoghi (17 giugno 1506. C. X). E così via via si prosegue nè passa anno, direi, che una nuovaa legge non vegga la luce del sole, nuove teste dell'idra cui l'ostinazione e la pervicacia eraclea dei giocatori scapitozzava.

Si facevan decreti contro il lotto, contro il giuoco del «pandolo» col quale «non solum li Putti ma ancora huomeni fatti et con la Barba nelle piazze pubbliche Campi, et altre strade di questa Città giocano non havendo rispetto alcuno alli viandanti», contro le scommesse (15 ap. 1553. C. X); si [p. 6 modifica]vieta il giuoco in Piazza S. Marco (17 Maggio 1561) decreto che si rinnova otto anni dopo, in Campo S. Zaccaria (29 Luglio 1586) in campo de' Frari (29 Sett. 1589) a S. Gerolamo (29 Aprile 1590), attorno alla Chiesa di S. Stefano (16 Gennaio 1593). —

Bofoncliiava il Garzoni5 contro i giuochi «de' dadi, de' carte e di tutte le sorti, et similmente di tutti i tripudij pieni di mollitie, et di lascivia, ne' quali intervengono mille peccati il giorno, e l'hora. Ivi interviene la cupidità, radice di tutti i mali, anzi la rapina che vuol spogliare il prossimo: l'immisericordia verso quello, che li cava sino la camicia, se può; l'inganno, che spesse fiate occorre meschiato col furto; la bestemmia contra Dio, il disprezzo della Chiesa, la corruttela del prossimo, il peccato dell'ira, l'ingiuria contra il fratello, et la villania: l'inosservanza della festa, et l'homicidio alcune volte. Ivi accadono i giuramenti, gli spergiuri, il testimonio iniquo spesse fiate, il desiderio ingiusto della robba d'altri. Ivi avengono tutte le sciocchezze, e le stoltizie, che l'huomo possa imaginarsi. Un giocatore diventa servitore del gioco, anzi schiavo, che non puo in modo alcuno spiccarsi da quello; perde il suo vanissimamente, conosce la malitia del gioco, et non la fugge riceve danno da esso, et volge l'ira contra Iddio, prepone il diletto di tre dadi alla divina lode; per non esser otioso, sta maggiormente otioso».

Anche il Verdizzotti nella biografia del Molin premessa alle rime6 tocca il medesimo tasto quando afferma che il poeta veneziano fuggíva l'ozio «et gli altri poco honorati trattenimenti de' giuochi di carte et d'altro, ne i quali si stà hoggidi per lo più miserabilmente immersa et perduta la gioventù della maggior parte delle persone per nobiltà di sangue, et per altezza di fortuna grandi ed illustri, consumando il tempo, et la facultà in crapule, et dishonesti piaceri, con detrimento dell'honore, del corpo, et dell'anima loro».

Nel IV dialogo del Franco7 un giocatore così parla a Caronte che esige l'obolo: [p. 7 modifica]

«Non sò in che giuoco non habbia veduto le mie disgratie. S'ho fatto a Toccadiglio, e a Sbaraglino, non ho si tosto toccati i dadi, che mi hanno sbarattato del mondo. Se a Tarocchi, mai non conobbi nè quella buona ventura traditora. Se alla Bassetta, di quante carte ho chiamate, non me ne rispose mai una. In quante notti di Dicembre sono, che non mi trovai di vincita due quattrini.»

E il Garzoni stesso in quel capacissimo calderone detto la «Piazza universale di tutte le professioni del mondo» dove, plenis manibus, se non gigli versò un intruglio di cognizioni importantissime per noi, curiosi e non ingrati nepoti, assegna un capitolo speciale ai giocatori «in universale et in particolare»8, nel quale, dopo la consueta sfilata d'autori che gli fan da colonna, ricorda i giuochi d'allora che divide in fanciulleschi «et in giuochi da huomeni». Se li vegga chi vuole: tanti sono che ci viene meno il buon volere; ricorderemo solo che si giuocava, tra l'altro «a tarocchi, a primiera, a gilè col col bresciano bruscando una da quaranta almen per volta, a trionfitti, a trappola, a flusso, a flussata, alla bassetta, a cricca, al trenta, al quaranta, a minoretto, al trenta un per forza, ò per amore, a Raus, . . . . . . . . . . . . . . a i dadi da tavole, a quei da farina, a scaricar l'asino, a toccadiglio, a sbaraglino, a tre dadi...»

A uno di codesti giuochi rassomiglia un anonimo9 le cure d'amore:


                                        L'amor se proprio co se la bassetta,
                                        che l'homo ghintra cusi a puoco a puoco,
                                        ma el non ha perso la prima gazeta
                                        che ti 'l vedi spazao, ti 'l vedi tocco,
                                        de sorte che va fin a la baretta,
                                        a chi no se de malmaro, o de zocco,
                                        cusì anche l'amor se a sto partio
                                        che pì che l'homo perde pì el và drio.

Nella «Zattera» del Cieco d'Adria10 v'à tra gli altri un gentiluomo che [p. 8 modifica]


                         ...giocando a primiera, ha fatto flusso.

                         Senza cibo pigliar sonno, ò ristoro
                         Giuocherebbe la sua parte del Sole,
                         E di San Marco, havendolo, il thesoro.

                         Di mille scudi, e non vi vendo fole,
                         Le cavate facca, nm un torto raro
                         Gli hano fato lo carte mariuole,

                         Poi che havuto ei non ha più alcun denaro
                         Giuocato ha la bellissima consorte,
                         E al fin giuocato i denti a un scudo il paro.

Olimpo da Sassoferrato, il noto strambottista, in un sonetto agli scolari11 comincia


                         Si sei scolar non giocare alle carte

e in un altro, indirizzato agli stessi,


                         Non giova andar a Padova a Bologna
                         Non giova gire a Perosia a Pavia
                         Per nome de studiar philosophia
                         E poi tornare a casa con vergogna

                         Chi vuol studiar le leggi glie bisogna
                         Lasciar la mala e trista compagnia
                         La volupta, li ginochi lasciar via
                         Pigliar la verita non la menzogna.

e così conclude un ultimo sonetto codato


                              Pero figlio habbi cura
                         Non seguitar il gioco acerbo et crudo
                         Che spesso lhuom per quello resta nudo.

E il Caravia12:


                         . . . . . . . . . . . . .
                         I se da spasso anche à la manina,
                         Con la primiera, bassetta, e 'l quaranta,
                         Stimando scudi manco che puina,
                         Vaga (i dise) sto resto, ch'è settanta,
                         Che questi no sarà la mia ruina,
                         Cusì zogando i se bertiza, e canta,
                         Come che s'ei zugusse de favetta
                         I ghe ne zugherave una caretta.

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                         I no vadagna, de trenta una fiata
                         Sti gonzi perchè i vien assassinai
                         Da chi de trufarie sà ben la pata,
                         E quando i vinti scudi â vadagnai,
                         I và de longo à trovar la so mata,
                         Che con do lichi la gli i hà licai,
                         E cusì al fin i deventa mendichi,
                         Se i fusse di un milion de scudi richi.

Ma chiudiamo i rivi chè i prati già abbastanza bevvero nè è nostro scopo discorrere partitamente del giuoco a Venezia nel 500: ci basti conoscere, anche alla meglio, il clima morale d'allora per ben gustare il capitolo inedito che ora do alla luce tolto dal noto codice Marciano 248 (it. cl. IX) intitolato «Rime del Veniero e di altri», frutto probabile di quei geniali ritrovi a ca' Venier, dove le dotte dispute s'intrecciavano e la poesia e la musica mitigavano la noia del Mecenate che intorno a sè numerava il fior fiore dei letterati veneti. L'anonimo consiglia un suo amico, giocatore arrabbiato, a lasciare una buona volta tal vizio che l'avrebbe ridotto al lanternino e a darsi a tutt'altro, all'amore, per esempio, o, meglio ancora, allo studio; cosicchè ora che è presentato e rimpannucciato alla meglio il mio uomo, m'inombro e lascio ch'egli snoccioli il ternario.


               Pi per mostrarve che son vostro amigo,
               Ca per mostrar, che so componer versi,
               Ve scrivo adesso questo, che ve digo,

               Per dolerme con vu, za ch'have persi
               Quanti soldi, ch'havevi per voler
               Tagiar senza pensar dreti, e roversi:

               Ben che me pore dir, caro missier
               Vu ste à criar, è mi no digo niente
               Vu have per mal de quel, che mi ho piaser

               Po chi no sa che non dire altramente
               Vu fe da savio à no ve desperar
               Per che per Dio fassa rider la zente:

               Ma sare ben pi savio à non zuogar
               E contentarve d'haver habu sta pesta
               Che le carte per vu sta in pezorar:

               Per che piu presto perdesse la vesta.
               Che vadagnar un cinquanta ducati,
               Caveve pur sta voia de la testa

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               Per che (sappie Signor) che tutti i matti
               Sta saldi in t'un humor, e chi ha cervello
               Se chiarisse, e tuò zo de questi trattj:

               Ò quanti grami che s'anda in bordello
               Che steva ben, che giera ricchi à cana
               E' adesso i ha de bisogno d'un marcello:

               Se vù havesse tutta padoana
               Quanti scudi in dies'anni è sta stampai,
               Quante merchadantie se â la Doana:

               E' ch'el perdesse, è no vadagnar mai,
               D'i più richi che fosse, in puochi zorni
               El sarave (a la fe) d'i piu spelai:

               Sapie Signor che l'è cosa da storni
               No se saver cavar fuora del zuogo
               Che da lu no s'ha nome danni, è scorni:

               L'e pezo in t'una casa, che n'è 'l fuogo,
               El spamassa mo, m'areccommando a Dio,
               Questo mi vel so dir, si ben non zuogo:

               Si che ve voi pregar che da qua in drio
               Incaghè al zuogo, e che ghe dighe toia
               Chi vuol zuogar, che mi me son chiario:

               Cancaro al zuogo, è a quei, che ghe n'ha voia
               Se perde i soldi, e po sora marcao
               Coloro che vadagna ride e soia:

               Vorave esser pi presto inspiritao,
               Che varirave à farme sconzurar,
               Ch'haver sto zuogo si fitto nel cao:

               Sto zuogo non saveu zo ch'el ss far
               El sa far nome mal, è costion,
               'E à chi no sa, insegna biastemar:

               Per Dio, ch'el zuogo se una destrution
               De le persone, e grami, chi no'l laga,
               Grami, chi no se mua d'opinion:

               Che co se se infrisa, fin che s'ha braga
               Al cul, se vuol zugar, è al cao da drio
               Co n'havè soldi, tutti ve n'incaga:

               Si che ve priego caro Signor mio
               Muoeve un pochetin de fantasia
               E cerche de trovar altro partio:

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               Ve priego si m'amè, trove altra via
               Da intertegnirve, che sia de più honor
               Ch'el zuogo certo se una minchionaria:

               Pi presto intertegnive con amor
               Ò con qualche vertu, che ve deletta
               Che questo ve sara da piú favor:

               Varde trovava qualche morosetta
               Che vu posse pensar, che sia corriva,
               Che procieda con vu sempre à la retta:

               Trovella bella, è che 1a sia lassiva
               E vardè, no trovè qualche mengrela
               Ch'un di ve peta po la pelatina:

               E che vu no trove tal cattivella
               Che con le sue parolle inzucharae
               Ve tegna sempre netta la scarssella:

               Aldi, per che qualc'una con ochiae
               A ponto fe l'amor con zentil donne,
               Con le più giote, et con le piu trincae:

               Che credeu, che le sia forsi colonne,
               Me meravegio mi, puol far San Piero
               Le se ancha esse, ce se l'altre donne:

               'E anche vu fare meio, a dirve 'l vero
               Tior d'i libri vulgari, è studiar
               Che mi che no so niente, è me despiero:

               Che vu ve posse forsi inamorar
               De tal sorte in tel lezer, che per Dio
               Chi ve pagasse, no posse zuogar

               E' con bel modo n'havesse chiario.




Note
  1. v. Pompeo Molmenti in «Gazzetta Musicale di Milano» N. 23 (6 Giugno 1901) pp. 355-6.
  2. I diarii di Marino Sanuto. Venezia 1892, Tomo XXXII pp. 500-1 (in data Febraio 1522).
  3. «Il giuuco a Venezia sulla fine del secolo XVI» in Archivio Veneto. Anno XIV. Tomo XXVIII, pp. 132 e sgg.
  4. Le bische e il giuoco d'azzardo a Venezia, 1172-1807. ― Venezia 1903. Libreria Aldo Manuzio, editrice.
  5. Il theatro de vari, e diversi cervelli mondani nuovamente formato, et posto in luce da Thomaso Garzoni da Bagnacavallo ecc. In Venetia. Appresso Fabio, et Agostin Zuppini fratelli 1591 (p. 65).
  6. Rime di M. Girolamo Molino. — In Venetia 1573.
  7. Dialoghi piacevolissimi di Nicolò Franco da Benevento. ― In Venetia. Presso Altobello Salicato MDXC (p. 73 t.o).
  8. Discorso LXIX dell'opera citata: edizione di Venezia 1592 (pp. 560 e sgg.).
  9. vedi «La Caravana», Rime piasevoli di diversi Autori ecc. Parte Prima. In Venetia per Sigismondo Borgogna 1573 (p. 23 t.o).
  10. Rime di Luigi Groto ecc. P. IIIa (p. 129). In Venetia appresso Ambrogio Dei 1610.
  11. in Parthenia. Libro novo di cose spirituali composto per C. Baldassarre Olympo da Saxoferrato. ― In Venetia per Benedetto et Augustino de Bindoni nel Anno del Signor MDXXV a dì IIII, de Decembrio.
  12. Naspo Bizaro, Con la Zonta del lamento ecc. ecc. In Venezia, et in Bassano, Per Gio: Antonio Remondini (p. 55).
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