Alghe della laguna/Al direttore

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Al Direttore della NUOVA ANTOLOGIA
1866

 Edission original:   

Francesco Dall'OngaroAlghe della laguna, Rime vernacole, Firenze, Direzione della Nuova Antologia, 1866

 Fonte:

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Al Direttore della Nuova Antologia.


Voi mi domandate un fiore da mandare a Venezia per festeggiarla, secondo l'uso antichissimo di Firenze, nel Calendimaggio della sua libertà.

Io non ho che pochi fiori secchi, poche alghe marine come quelle che sogliono conservare gli amanti tra i fogli del libro de' Ricordi; ma tali quali sono ve le presento, e voi presentatele alla bella e desiderata Venezia, come prove della costante memoria e del religioso affetto che i suoi figli raminghi le hanno sempre serbato.

Nutrito anch'io del suo latte, educato a balbettare le prime parole nel suo dolce idioma, ho dovuto passare la migliore parte della mia vita lontano da lei. Quante volte io speravo di riposarmi nelle sue poetiche lagune, altrettante una trista fatalità mi obbligava a lasciarle. Meno infelice finchè da Padova, da Trieste, dall'Istria poteva ancora sentire la sua loquela e spirare la brezza che mi veniva da lei! Ma dopo il 1848 una mano di ferro mi respinse per sempre, un decreto inflessibile mi stette sul capo, un lago di sangue, sangue dei miei fratelli ed amici, si frapponeva tra noi.

Alla vista de' suoi martirj e all'insulto de' soldati e de' birri dell'Austria, ho preferito l'esiglio, la miseria, la fame. Ho preferito andarmene colla mia famigliuola per terre lontane, dove la mia parola, unico mio tesoro, suonava sconosciuta e poco gradita. Ho dovuto vestire di fogge non sue, il pensiero della mia mente, il sospiro del cuore, costretto ad esprimere con voci straniere quei moti, quelle emozioni, quei fremiti che non hanno valore che nella lingua natia. Poeta, ho rinunciato per [p. 573 modifica]molti lustri alla poesia dell'anima, perchè i vicini non la intendevano, e Venezia era troppo lontana per ascoltarla.

Ma il cuore non cessava per questo di battere nel silenzio: e nelle meste allucinazioni del desiderio io la vedeva, io la sognava, io l'amava in ogni aspetto, in ogni suono, in ogni cosa che mi parlasse di lei.

L'orologio della torre di Anversa mi ripeteva ad ogni quarto d'ora i brani del carnevale di Venezia del Paganini: Bruxelles festeggiava gli anniversarii della sua libertà con fiaccole variopinte, che quei buoni Fiamminghi chiamano veneziane.

Fin sulla Senna, che si vanta di non aver nulla appreso dagli altri, e d'insegnare al mondo ogni arte gentile, fin sulla Senna un simulacro delle Regate veneziane mi faceva piangere ogni anno. Le Regate veneziane a Parigi che, nel trattato di Campoformio le aveva abolite per sì lunghi anni nelle Lagune!

Io cercavo i cavalli di Corinto sul frontone della Maddalena, parendomi qualche volta, come a Napoleone, che farebbero più bella mostra colà, che nella città venduta all'Austriaco. Ma era il voto del poeta che aveva bisogno di rivederli: non quello del cittadino che anzichè schiavi a Parigi, doveva desiderarli prigionieri per alcun tempo sulle antiche lor basi, dove presto o tardi, il grido del popolo vincitore li avrebbe fatti esultare!

Io cercava nelle faccie sconosciute e straniere che mi sfilavano innanzi qualche lineamento che mi richiamasse le grazie ineffabili della donna veneziana. Mi parve d'esser ricco, quando il mio amico Filippi mi regalò una bella edizione delle Feste Veneziane della Michiel: e quel libro, impari al soggetto, mi parve pur bello e poetico. Mi parve bello e poetico per associazione di idee, perchè mi richiamò alla mente l'arguta sembianza di quella vecchierella che fu detta, e speriamo a torto, l'ultima veneziana. Ultima certo di quelle dame che poterono vedere dalla Procuratìa, l'orgia disonesta di coloro che avevano compra, venduta, e tradita la regina dell'Adriatico! Ma non potendo ravvisare nè a Bruxelles, nè a Parigi, nè a Londra qualche cosa che mi richiamasse le belle di Giambellino, di Giorgione, di Tiziano, ne lamentava talora perduta per sempre la razza, e rotta la stampa.

Ma nelle serate musicali mi avvenne alcuna volta di sentire la Biondina in gondoleta, La note xe bela, e qualche altra melodia del Parrucchini, o del Buzzola, che preferivano ancora il molle verso vernacolo ai Rispetti amorosi dei Fiorentini. [p. 574 modifica]Nina non è dunque morta pensai! Nina vive ancora nei suoi palazzi deserti, nelle sue gondole mute, sui suoi canali minacciati dai fortilizii dell'Austria! Nina aspetta ancora il suo Carnevale, la sua Sensa, il suo Bucintoro, le sue feste notturne, le sue serenate al chiaro di luna, i suoi misteriosi convegni alla Giudecca e a Murano!

Chi sa? Ella resiste ancora ad ogni costo al soldato straniero ed aspetta sul suo pergolo l'alba della redenzione, e la voce del suo fidanzato lontano!

Io la sognavo ora avvolta il pallido viso nella bruna tradizionale mantiglia, ora col capo scoperto, colle trecce voluttuosamente cadenti ornate da un lato di un garofano o di una rosa. Ora mi appariva picchiando la terra col tallone delle ricamate pantofole, come l'Andalusa batte l'una con l'altra le sue castagnete: ora a Chioggia e a Murano arrovesciando sul capo una delle sue bianche e trapunte gonnelle, nascondere le braccia ed il viso, tranne un occhio solo, che bastava a manifestare il secreto del cuore. A Venezia l'incessante alternarsi delle genti e delle mode europee cancellò gran parte di quella fisonomia originale, che distingueva la Veneziana: ma nelle cento isolette che la circondano, come una cintura tempestata di smeraldi e di cammei, nelle due estremità di Santa Marta e di Castello, negli antichi municipj della Dalmazia e dell'Istria, avevo veduto le tracce dell'antico costume, come ci fu conservato dal Tiepolo, dal Piazzetta, dal Canaletto.

E con quei frammenti superstiti ricostruiva la Venezia dei miei pensieri, la Venezia dei secoli scorsi ornata del zibellino ducale e del corno d'oro...

Spesso mi avveniva di sentire tra la folla delle donne fiamminghe, inglesi e francesi il nome di Nina. È sì bello, è sì dolce quel nome, che le straniere ce lo invidiano volentieri. Ma talora non era solamente un nome usurpato. Nina era veramente una Veneziana a me sconosciuta, un'esule forse al pari di me. E chiunque ella fosse, poichè portava il nome di Nina, e parlava il mio idioma materno, io mi sentiva attratto irresistibilmente verso di lei, e l'amava e l'adorava come una santa reliquia dei giorni passati, come un fiore appassito della ghirlanda nuziale, come un'apparizione fantastica della fata Morgana al navigante de' mari lontani, al peregrino che attraversa le sabbie desolate dell'Africa.

Nina! a te, chiunque fossi, ho consacrato i miei versi: i pochi versi che seguono composti pensando a Venezia, e sperando di [p. 575 modifica]tornarvi coi capelli bianchi bensì, ma col cuore giovane ancora e caldo dei primi affetti che non invecchiano coll'età!

Questi versi sono o un sospiro d'amore: Magari!, o un ritorno doloroso al passato: Che pecà!, e fra questi due estremi, le speranze e le memorie, le dilicate ed intime confidenze che il cuore mormora a bassa voce nei dolci colloquii a quattr'occhi, quando la lingua riprende l'antica semplicità, rigettando i solecismi spagnuoli e tedeschi del voi e del lei.

Nina era spesso una persona vivente, non l'amica impersonale e l'idolo del pensiero: ma allora la frase scherzosa moriva sovente in un amaro presentimento, o in un voto troppo lontano dall'avverarsi. Nina diventava Venezia! Nina era il nome che epilogava in sè stesso tutte le memorie del passato, tutte le speranze dell'avvenire. Il giorno di Sant'Anna (Nina) diventava l'anniversario d'una speranza sempre fallace e sempre rinascente dalle sue ceneri!

Ma quest'anno Sant'Anna sta per mantenerci le sue promesse. E Venezia ci tende le braccia, e Nina ci sta aspettando dal suo terrazzino, pronta a sventolare dall'alto la bandiera tricolore, riposta ma non consegnata al nemico, e non macchiata da ignobili transazioni.

E aspetta che i colombi di San Marco vengano a darle l'annunzio che gl'Italiani hanno superato le foci custodite del Lido e di Malamocco, per celebrare le nuove sposalizie della terra col mare, del Leone alato dell'Adriatico coll'Aquila romana, che rompe il suo guscio, e rigetta, come viva crisalide, la larva mostruosa che ne deformò le sembianze....


Dall'Ongaro.





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