Saggio del dialetto vicentino/Prefazione

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Qualità del testo: sto testo el xe conpleto, ma el gà ancora da vegner rileto.

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Giovanni Da SchioSaggio del dialetto vicentino, uno dei veneti, ossia raccolta di voci usate a Vicenza, per servire alla storia del suo popolo e della sua civiltà, Padova, Angelo Sicca, 1855

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PREFAZIONE



Ho raccolto per ordine alfabetico due grossi volumi di voci usate a Vicenza e nel suo Territorio. I nomi geografici o topici, le voci contadinesche, le urbane, le moderne, le antiche, tutte hanno ed ebbero ingresso nella mia congrega; quelle solo escludendo, a cui nulla seppi aggiungere dopo che furono registrate nei Lessici del Patriarchi e del Boerio.

Quest’ampio tesoro di vocaboli, fatto sopra sì vasto disegno, benchè oggidì cresciuto assai, è piccola cosa in confronto di quello che riuscirebbe s’io potessi valermi di tutti i materiali che desidero. Ogni villaggio ha le voci sue proprie, come di molte me ne hanno fatto fede i Summarioni censuarj. Ogni archivio delle nostre vecchie famiglie trova ne’ suoi cartabelli, scritti dagli antenati nostri nella semplicità delle loro costumanze, voci oggidì inusate al domestico consorzio e commemorative d’usi e d’industrie, e di agi economici interessanti e perdutisi.

L’idea di costruire un Dizionario di un dialetto Vicentino, singolare nella sua essenza, non venne mai nel mio capo. Le poche differenze della pronunzia usata a Vicenza da quella di Venezia, e le voci novelle che si odono in essa città non costituiscono un linguaggio sì particolare fra noi da dirlo nemmeno un suddialetto del Veneto.

Non è che da poco tempo avvenuto che alcuni scrittori Vicentini si persuasero, per troppo zelo di autonomia, parmi, intitolare le Opere loro scritte in Visentin. Questa denominazione non era conosciuta nella letteratura dei nostri padri. Essi scriveano il Veneto ed il Pavan. È vero ch’essi con queste parole intendevano tutt’uno il parlar di Vicenza, salvo la differenza dell’urbano dal rustico; ma è utile tener conto del come lo chiamavano per adocchiare la tradizione che ce ne ricorda la provenienza. In ambe queste classi i Vicentini hanno scrittori non ispregevoli. Io non separai l’una dall’altra, e registrai le voci come mi venivano all’uopo, purchè avessi certezza ch’erano scritte o parlate da penna o da lingua [p. 4 modifica]Vicentina. Il farne distinzione era opera difficile ed è, perchè deboli sono gli studj preparatorj. Il Veneto è ricco di libri teoretici; il Pavan n’è privo. Ove le leggi di questo non sieno conosciute, come si fa a distinguerlo di colpo in un paese ov’è misto ad un altro? Il Patriarchi e il Brunacci, che raccolsero le leggi e le origini di quello di Padova, fanno cadere in errore chi credesse ch’essi trattassero il Pavan di cui parlo. Essi nelle loro Opere cercarono solo l’origine e le regole del dialetto Veneto in Padova; essi non si degnarono nemmeno di registrare la voce Pava e tradurcela. Io credo essere il Pavan un dialetto anteriore al Veneto, guastato, raffazzonato da esso; ma che in origine si fondi su quello che parlarono gli Euganei e gli Etruschi, veri antenati del presente villico Patavino e Vicentino.

Lo studio di questo dialetto porterà a belle conseguenze chi lo condurrà di pari passo alle lingue antilatine; e benchè difficile il frutto da ottenersi, non è impossibile, essendoci tramandati monumenti del Pavan da chi lo scrisse in tutti i tempi moderni, e per la tenacità dei contadini a conservare i suoni in uno al significato delle voci dei loro progenitori, ancora in gran parte esistente.

Questa catena d’idee cominciò ad inanellarsi in me dopo l’accidente che mi avvenne d’incontrarmi in alcune Iscrizioni Etrusche negli antri dei colli Berici. Io pensai che vi potrebbe essere affinità e parentela fra quelle cifre incomprensibili, ma sillababili, scolpite sui macigni, e le voci goffe, bistorte, eruttate dalle gole ispide dei montanari, il cui significato è preciso sì, ma d’ignota radice. Questo proposito mio non era nè strano, nè nuovo. Il Lanzi ne avea inculcato l’utilità agli Etruscisti. Incominciai dai nomi proprj dei luoghi, e conobbi subito che il mio lavoro non era perduto all’intelligenza; imperciocchè osservai la costanza di un nome apparentemente di nessun significato affisso ad un carattere fisico costantemente lo stesso. La bisogna, dissi allora, non può mancare di crescere, ove non manchi la fatica e la critica.

L’antichità delle voci che segnano i nomi proprj dei paesi non è da porsi in dubbio per altissima; il Cristianesimo ce n’è mallevadore per quei molti che ce ne ha conservato. Immemorabile è il tempo in cui il nome di un Santo fu aggiunto ai primitivi di molti luoghi. S. Pietro in Gorzone, S. Pietro in Trigogna, S. Vito in Leguzzano ci fanno fede che Gorzone, Trigogna e Leguzzano sono più antichi dei Santi che oggidì li distinguono. Che poi gli Etruschi conoscessero i nomi dei paesi, e quasi come noi li scrivessero, gli esempj trovati di Tesin, Laris, Panzanoerrata corrige originale nei paesi che ricordano ce ne assicurano. [p. 5 modifica]Oltre il Pavan, il dialetto Veneto a Vicenza si modifica alle volte per un altro ingrediente che vi s’intrude. È questo il Cimbro, lingua Teutonica che va tuttogiorno dileguandosi dai nostri monti e dai nostri piani, ma che ciò nulla ostante ha lasciato nei nostri mercati segni diversi.

Non isconobbi la grande utilità che tutti i Vocabolaristi filosofi sanno cogliere in lavori di simil fatta, per cui lasciato quasi da un lato l’antico scopo di essi, ch’era quello d’insegnare ai volgari la lingua nobile, mirano oggi a fare incetta delle voci che sono documenti storici di civiltà e di politica. I timori, le ire, le letizie, le superbie, le avventure di un popolo lasciano nella lingua sua alcuni vocaboli che, come le medaglie nei Gabinetti numismatici, ne conservano la memoria. Io sono troppo tenue letterato e filologo per vantarmi di avere cooperato un nonnulla a questo scopo, il più sublime a cui possa mirare un uomo dotto. Se qualche volta lo raggiunsi, spero che il lettore me ne saprà grado.

Io teneva nascosta questa fatica, e solo ne diedi indizio ove mi ha giovato ad altri esperimenti archeologici, co’ quali ho importunato alla stampa gli amici e mecenati miei; ma tre avvenimenti mi avvertirono ch’io diffidava a torto sull’importanza grande del mio lavoro. Mi avvidi da essi che il raccogliere le voci del mio paese era una nobile ed utile impresa, la quale non solo aggiungeva al Dizionario della illustre famiglia dei Veneti una eletta Appendice, ma illuminava eziandio la storia della imaginazione dei popoli, ed il processo logico e sentimentale della civiltà.

Il primo di questi avvenimenti si fu l’arrivo in Vicenza di un Principe Napoleonide, incettatore di libri di simil fatta, e che parti da essa città a mani vuote, vergognandosene i cultori tutti dei nostri studj patrj.

Il secondo fu il bel libretto del sig. Gabriele Rosa intitolato Documenti storici tratti dai vocaboli del dialetto del Lago d’Iseo, il quale mi convinse della più bella utilità che trar si possa dai monumenti vocali, e della ragione della fatica mia, fatta proprio sul suo disegno.

Il terzo fu il Saggio dei dialetti Gallo-Italici del signor B. Biondelli, dal quale è chiaro conoscere come si squarci il velo dei tempi studiando l’uso intellettuale e fonetico di un dialetto.

Stimolato da questi avvenimenti, pensai non di publicare l’Opera mia, poichè troppo vasta impresa sarebbe stata, e troppo inutile certo il porre sott occhio al lettore im infinito numero di parole d'oscura origine, e non ripassate dal coltello anatomico dell’analisi, o dal pressojo della sintassi, consolidate per cosi dire, agli occhi di un sistema o di un altro: piante secche, inutili a mostrarsi, ove non si dica la ragione o l’autore della loro [p. 6 modifica]esistenza; ossa spolpate, che attendono un erudito il quale indichi l'animale a cui appartenevano: ma un Saggio pensai di publicare dal mio lavoro (escludendo tutto ciò che ai Saggi dati dai Naturalisti Vicentini sui confronti di voci scientifiche e volgari paresse tolto, onde non farmi bello dell'opera altrui); un Saggio, diceva, delle parole che giovano ad illustrare la storia dell'uomo, o la derivazione del dialetto.

Chi sa, così spero, che l'Opera esile, ch'io mi arrischio di esporre forse con troppa pompa di raccoglitore, forse con troppa smania d'indagine, non desti qualche illustre ingegno della mia patria a dare a questa statua più vaste membra, ad animarla di più robusta intelligenza, a metterla a pari di altre Opere di simil fatta, che onorano altre città?

Alcune passioni del dialetto Veneto usato dai Vicentini sostituiscono l’i all’e. Per esempio:
Toscano Veneto Vicentino
Vedete Vedeu Vidìo
Dite Disè Disì
Maestro Mestro Mistro.

Il vezzo non dev'essere antico, imperciocchè troviamo il contrario nei monumenti del secolo VIII. Fiereerrata corrige originale ordenavet per fieri ordinavit; Novoledo per Novolido; e il Testamento Proto, scritto in dialetto nel 1412, mea per mia; e pure oggidì anema per anima.

Abborrono il ce, e lo sostituiscono sempre col ze; non sanno nemmeno pronunziarlo quando vogliono. Se un popolare riferisce un discorso di un forestiere, cerca nobilitare la propria lingua eziandio, e ripiglia la narrazione di quello sempre con un dize per dice.

Benchè sfuggano anche di pronunziare il ci, non sempre lo sostituiscono col zi. Se il buono Italiano scrive ch, allora è certo che il Vicentino pronunzia ci. Per esempio: chiaro, ciaro; chioccia, ciocca.

In alcune voci hanno lettere epitetiche, ossia forse conservano l'originalità Italiana altrove sincopata. I Toscani febre, i Veneziani freve, i Vicentini fievera.

Spesso i Vicentini rozzi frapongono l'r fra le due ultime lettere che finiscono in mente: solamente dicono solamentre.

Non solo il volgo, ma eziandio i più colti Vicentini, hanno grande dissapore coll'el. Di rado lo lasciano al posto ove lo pose il tipo Italiano; ora l'ommettono, ora lo trasportano. Italiano: Bacchiglione, figliuolo, giglioerrata corrige originale, egli. Vicentino: Bacchigion, figiolo, gilgio, elgi. E così rosolgio per rosolio, e più stranamente all'orologio dicono lerogio; ad un religioso, lerigioso. [p. 7 modifica]Il popolaccio confonde il d col z; onde dice verze al color verde, e viceversa verde alle sverze o verze, erbaggio; e così ove il colto Vicentino dice mazego al fieno maggiatico, il rustico lo dice madego; andar do, per andar zo, ossia giù; mando per manzo. Quest'uso del d per z è opinione dei Grammatici che fosse proprio dei prischi Latini (vedi Lanzi, Tom. I. pag. 90).

I Vicentini sono proverbiati per una certa tal quale loro cantilena o allungamento dell'ultima vocale, ch'esce nel fine di un periodo. Vidì là pel canalee; vignì quà che ve la contaaerrata corrige originale. Il Brunacci osservò questo vezzo nelle più antiche memorie del dialetto Veneto in Padova, e i Veneziani lo accusano nel suddialetto dei Buranelli. Probabilmente i Veneti in origine parlavano tutti con questa allungazione.

L'n riceve di spesso un g avanti sè stesso. Gneve vale neve; Gnevo significa la nostra illustre famiglia Nievo; gnespilo il nespolo; e più stranamente per nuvolo dicono gnivolo.

Il g unito all’i ed all’e e si trasforma come il c in z; onde dicesi zente, zenero, zirone, zoso per gente, genero, girone, giuso. Se vero è che il nome del paese Colzè è un composto di colle e giù, questa voce, che trovasi all'anno 975, è un testimonio dell'antichità di questa pronunzia.

I Vicentini volgono l'j toscano in r. Per esempio, in fine delle voci vespajo, solajo, stajo, pajo dicono vesparo, solaro, staro, paro. Uno di questi esempi, rinvenutosi in sul principio del secolo XIII., mostra come il vezzo è più antico di Dante.

Queste osservazioni, che servono a risparmio di molte voci che non avrebbero altro diritto d'essere registrate come Vicentine, se nonerrata corrige originale la diversità della loro pronunzia dalla Toscana saranno aumentate ove ne cadrà al loro posto l'occasione.

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