Poesie di Francesco Gritti in dialetto veneziano/Vita dell'autore
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Francesco Gritti, Poesie di Francesco Gritti in dialetto veneziano, Terza edizione ricorretta e accresciuta, Venezia, G. Missaglia, 1824 |
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VITA DELL'AUTORE
SCRITTA
DALL'AB. ANTONIO MENEGHELLI
P. P. PROF. NELLA R. UNIVERSITÀ DI PADOVA
La vita longeva di un uomo di lettere il più delle volte somiglia all'esistenza di un giorno. Quella regolare uniformità che uccide lo scioperato, il quale vive a carico altrui, è l'anima di chi sa viver con sè, e di se stesso, Fu tale il nostro Gritti, e perciò poco avremo a dire di lui. Nacque in Vinegia il dì 12 Novembre dell'anno 1740 da Giannantonio Gritti e da Cornelia Barbaro, donna di molto spirito, non istraniera alle Muse, e non discara a' poeti più conti di quella stagione, quali un Bettinelli, un Frugoni. L'asse paterno era di assai limitato, e perciò il nostro Francesco ebbe nell'Accademia della Giudecca quella educazione, che la pubblica munificenza accordava a' men doviziosi fra gli ottimati. Il P. D. Stanislao Balbi lo instituì nelle lettere amene, e il P.D. Luigi Fabris nella filosofia. Fu ammiratore ed amico di entrambi, ma l'accigliata Sofia non istrinse grande amistà con un giovane nato per salire in Parnaso. Compito il suo tirocinio indossò la toga patrizia, e giunto ai trent'anni, età dalle leggi prescritta, con larga maggioranza di voti venne eletto a giudice ne' Consigli de' Quaranta. L'integrità e il senno, con cui amministrava la giustizia, avrebbongli aperto il campo a una carriera più luminosa, s'egli, d'altronde grato ai favori de' suoi cittadini, non se ne fosse schermito. In fatti non cessò da quell'uffizio che col cessare della Repubblica; e tranne pochi mesi di una destinazione ch'ei per celia assomigliava a una farsa, la morte politica della sua patria segnò l'epoca di una vita onninamente consecrata a quella poesia, ch'era stata il suo idolo anche in seno alle pubbliche cure, e lo fu sino all'estremo respiro.
Ben diverso dalla corrente, assai di buon'ora s'avvide, che gl'istitutori ci mostrano la via del sapere, e ch'ove per nostra ventura l'additino come conviene, molto ci resta a fare pur anco onde raggiungerla. Studiò con sommo ardore le lingue viventi per assaporare da sè quanto poteangli offrire di grande i più famigerati cultori dell'altre nazioni; e quantunque dalla natura fosse creato per fare le parti di originale, amò di sostenere le men nobili di traduttore. Forse in quella gara volle conoscere più da vicino la letteratura delle altre nazioni, forse volle far prova delle sue forze, e forse si avvisò di mostrare come l'italico idioma, mirabilmente attemprandosi ad ogni maniera di colorito, sopra l'altre lingue rivali altamente si estolla. Ma presto venne meno al suo divisamento, e quasi direi suo malgrado fece le parti d'autore nell'atto stesso che volea far palesi le dovizie degli scrittori cui prendeva a tradurre. Tolte poche tragedie francesi,1 nelle quali si mantenne fedele, quanto lo è chi pesa e non numera le parole e le frasi, mai gli avvenne di accingersi a dare italiche vesti alle opere dettate lungo la Senna, che il suo lavoro non prendesse le sembianze di un'opera di nuovo conio. Il Tempio di Gnido,2 parto di Montesquieu, nato per librare le leggi ma non per sagrificare alle Grazie, appena il suo prisco autore ricorda; tanto ei ci sembra infiorato e abbellito dalla venustà de' pensieri e dal prestigio della dizione dell'ottimo traduttore. Intitolò il suo lavoro versione libera; e ben a dritto ove si rammenti, che ad una prosa alquanto studiata e leziosa3 prestò le veneri della spontanea natura e l'incanto del metro. Non era egli del parere di quelli, che obbliata la musica della parola, trovano la poesia quantunque volta si parli all'immaginazione od al cuore; e perciò mostrandosi alquanto indulgente con una nazione, alla quale non venne accordato un linguaggio sempre degno dei numi, nol seppe essere con sè stesso, e con la lingua eminentemente poetica con cui vestiva le produzioni straniere.
Nè meno gloriosa fu la lotta ch'egli sostenne quando si accinse a tradurre la Pulcella d'Orleans di Voltaire; se però tradusse chi, ritenuto il titolo dell'argomento, lo disegnò, il colorì, lo condusse a seconda del proprio gusto. Noi portiamo opinione che potesse dispensarsi dall'imitare un poema, che, a detta di un illustre Scrittore, considéré seulement sous les rapports de l'art, est ancore une espèce de monstre en épopée comme en morale.4 Ma s'egli è vero, che a torto prese il partito di rivaleggiare con quel modello, e se del pari è certissimo, che i suoi versi non riescirono di assai castigati, è però fuor d'ogni dubbio, che il macchinismo, lo sviluppo, gli episodj, rintreccio, assai meglio dell'autore francese, ricordano i canoni dell'epica. Ci giova per altro sperare, che la Pulcella non sia per divenire di pubblico dritto. La morale ha troppo sofferto perchè possa sostenere l'insulto di nuovi attacchi; nè senza far onta alla memoria di lui, si potrebbe estendere a tutti uno scritto, di cui per ischerzo leggea qualche tratto a un picciolo stuolo di colte persone, abbastanza educate a probità per ridere di que' vaneggiamenti poetici senza lesione del loro cuore.
Gli amici instavano perchè lungi di abbellire l'altrui qualche cosa offerisse del proprio; e sopra tutto lo stimolarono perchè calzato il coturno vendicasse l'onore del teatro italiano. Credeano ch'ei ne avesse la maggiore attitudine, ma non così la sentiva egli, ed altri pure sarebbero stati del suo parere, se un po' meglio avessero studiata la tempra di quell'uomo singolarissimo. Dotato di una fantasia ricca e vivace, non avrebbe così di leggieri rispettate le leggi della drammatica; e nato per essere un nuovo Luciano non avrebbe sempre tenuto il linguaggio di Sofocle. Avvengachè v'abbia molta distanza fra il socco e il coturno, pure vi sono dei punti di scambievol contatto; e giù con la ben nota commedia dell'Acqua alta5, accolta coi fischi di tutti gli astanti, avea donde convincersi, che anche lo stile dei veleni e dei pugnali non gli sarebbe stato molto propizio. Si sa che, o troppo superiore, o troppo sensibile alle pretensioni dell'amor proprio, rise al riso de' suoi uditori, e fu tra' primi a canzonare dalla stessa loggia l'autore; e si sa pure, che per fare la commedia della commedia, la diede alle stampe ponendovi in fronte una dedicatoria6 e un'apologia7 veramente berniesche, non senza il più deciso proponimento di accommiatarsi per sempre da Talia e da Melpomene.
Fermo nel suo pensiere s'infinse però di assecondare i voti de' suoi più cari, nè andò molto ch'egli, come solea tratto tratto con altri parti della sua musa, gl'invitò alla lettura di un'arcitragicissima tragedia, nella quale ben lungi dal fare la parodìa dell'Ulisse del Lazzarini, fece quella dei Gozzi, dei Cesarotti ec., i quali eransi dati a credere, ch'ei sul serio volesse impicciarsi colle cene di Atreo e di Tieste, e con quanto v'ha di più crudele e terribile nella storia del delitto potente. Il titolo corrispondeva agli attori, e il dialogo, i caratteri, il viluppo, lo scioglimento erano così strani e bizzarri, che tutta la brigata ebbe a scompisciar dalle risa, anzi a pregare l'autore di frappor qualche respiro, onde riaversi da quella convulsione che avea in tutti destata la più ridevole fra le produzioni 8. Con che diede apertamente a conoscere, che non era egli uomo da piegare così di leggieri agli altrui consigli, e che nella scelta degli studi voleva esser libero, quanto amava di vivere a proprio talento il Venosino, il quale stava alla campagna quando Mecenate ed Augusto si querelavano del suo assentamento, e restituivasi a Roma quando niuno chiedeagli conto de' fatti suoi. Oltre l'Acqua alta, avea egli mostrato, che venendogli il buon destro di allacciarsi la giornea di creatore, in luogo di stringere amistà coi piagnistei della tragica, avrebbe data sempre la preferenza a qualche tema di indole affatto diversa. Di simil genere fu il romanzo pubblicato nell'anno 1767 coi tipi del Bassaglia, il quale aveva per titolo: La mia storia, ovvero Memorie del Sig. Tommasino scritte da lui medesimo: Opera narcotica del Dottor Pifpuf, edizione probabilmente ultima. Dal frontispizio è facile argomentare il subbìetto e la trattazione; e se in molti casi si avverò il motto di Fedro: Frons prima decipit multos, in questo non ebbe luogo.
È però curioso, che un uomo di aspetto grave, taciturno, pensoso, più amico della solitudine che del conversare, avesse sortita un'anima tanto lieta e scherzevole. Quelli che lo conobbero un po' da vicino, che frequentavano i crocchi ov'egli parcamente solea comparire, trovavano il suo fisico e le sue forme socievoli in perfettissima antitesi coi temi della sua musa. Più dormiglioso che desto, molto raccoglieva dagli altri e poco dava del proprio: se però il voto cicalìo de' nostri circoli non veniva compensato con larga usura dai pochi tratti veramente attici, che talora usciano dalle sue labbra, il più delle volte a vera noja composte. Ma ciò che poneva il colmo alla meraviglia era quella faccia imperturbabile con cui, cedendo alle istanze degli amici, recitava quei lepidissimi apologhi, dei quali avremo a parlare ben presto. Il riso e la gioja scherzavan festevoli sul volto di quanti l'udivano, ma egli solo così se ne stava in sul serio, che l'avresti creduto un nuovo Uticense. Il quale contrasto fra la persona e le cose addoppiava mirabilmente l'effetto. Lontano dall'importuna garrulità dei seguaci di Apollo, e nemico di quella ritrosa modestia che troppo sovente pute di orgoglio, chiesto recitava con molto garbo i suoi versi. La scelta dipendea dagli amici, giacchè non v'era un solo fra i tanti apologhi dall'aurea sua penna dettati che non gli fosse presente; ma ricordevole che dal bello stesso non vanno disgiunti i sbavigli, ove l'importuna sazietà s'inframetta, sapea mantener vivo il piacere provvedendo colla sobrietà al desiderio. A tal uopo o visitava molte società nella sera stessa, o più sere vivea colla ricca società de' suoi pensieri.
È noto come il dialetto veneziano da lunga stagione abbia ottenuto il suffragio dei dotti. Sino dal secolo XVI il famoso grammatico Virunnio Pontico, l'appellò bellissimo e dottissimo fra tutti i dialetti, siccome quello che nella grazia e nella dolcezza cammina assai da presso alla lingua di Omero9. Il Bettinelli10 e il Foscarini11 vi hanno notati parecchi accenti e non poche maniere, che sanno del greco. Apostolo Zeno lo trova ricchissimo di voci e di veneri tutte proprie e native12. Il Boaretti lo vuole atto ad ogni stile13, nè inchina meno alla lode quel Cesarotti il cui giudizio vale per molti autori14. Ma gli è pur vero, che per molti secoli non v'ebbe scrittore che facesse tesoro di tanti pregi, e che quanti comparver da poi o si mostrarono inferiori all'impresa, o circoscritti a un solo genere, non furono a portata di far vedere com'egli prenda tutte le tinte. L'onore parve tutto serbato all'ottimo Gritti, e se non c'illude il santo nume dell'amicizia, ci sembra che Dante gli abbia preparato l'elogio in quel verso:
Mostrò quanto potea la lingua nostra15.
Disse il Dati, che la favella toscana è attissima a scrivere di tutte le materie, in tutti i generi ed in tutti gli stili, non le mancando copia di voci, varietà di maniere, proprietà di termini, dolcezza di numero, vaghezza di ornamenti, sublimità di frasi, forza di espressioni16. E'l Gritti era intimamente convinto, che la cosa non andasse altrimenti per riguardo al nostro dialetto; ma lasciati gli encomj di quanti l'avean preceduto volle per sè tutta la gloria, e diciam pure l'arduo cimento di mostrare co' fatti che la giustizia avea guidato la loro penna. Si misurò con ogni argomento, tentò tutti i metri, ed ebbero una vita non meno onorevole i pensieri grandi e popolari, i serj e i giocosi, i teneri, i forti. Poetico nelle immagini, pittoresco nelle frasi, creatore di traslati sempre felici; nell'ironìa senza pari, terribile quando sferza il costume, ameno quando descrive; grave, rapido, delicato, veemente come meglio torna al soggetto; tutto verità, tutto natura, tai quadri ti offre ne' suoi apologhi che sono un vero incantesimo. V'ebbe chi volle ripetere dalla maniera con cui recitava i suoi versi quella pienezza di favore con cui vennero accolti; ma s'ingannò certo a partito, e ben a ragione l'Anacreonte d'Italia nel pubblicare La Tordina e i Tordinoti17, diede il seguente giudizio: Certamente è forza il dire che queste sue favolette siano bellissime, se, ascoltate più di una volta, destarono maisempre una sensazione dolcissima di piacere e di maraviglia. Esse mi pajono così riccamente adorne di sè medesime, che potrebbero presentarsi allo sguardo del pubblico senza temere che la severità degli occhi smentisse l'illusion dell'orecchio. Chi è fornito di vivo ingegno scoprirebbe, leggendole, molte altre di quelle intime bellezze che gustar non si lasciano posatamente dalla rapidità della lingua. Forse avverrebbe di loro ciò che avviene spesse volte di alcuni preziosi cammei che ci feriscono a colpo d'occhio e sotto la lente c'incantano. Al che assai di buon grado assentirono quanti lessero le poche favole che in progresso vider la luce, quantunque gli editori abbiano data la preferenza a taluna che l'Autore riputava forse men degna della stampa18. E in vero non tutte sono del medesimo conio, nè le nostre lodi intendono di estendersi a tutte. Ve n'ha di quelle che sono una pretta imitazione di Fedro, o di la Fontaine; alcune che pajon nate in momento di languore; altre cui non arride sempre quel vero che a detta di Boileau:
Il doit regner par tout, et même dans la fable19;
queste declinano dalla loro semplicità per tenere il linguaggio della satira grave ed austera, e quelle riescono alquanto prolisse per voler assumere abbigliamenti non suoi. È però certo, che la moderazione non è sempre compagna della ricchezza, e che in tanta folla d'idee, di cui era signore, non sempre poteva escludere le meno dicevoli all'argomento. Simili difetti tuttavia non s'incontran così, che troppo sovente l'accusino di avere violato il precetto Oraziano:
...Jam nunc dicat jam nunc debentia dici20.
Non son'eglino che poche macchie di non molti componimenti, le quali o svaniscono a rincontro di tanti pregi, o tolgono a' critici ogni diritto alla censura, perchè non dimentichi di quanto ebbe a dire quel sommo dittatore del gusto:
- Ubi plura nitent in carmine, non ego paucis
- Offendar maculis21.
Nè avremmo d'altronde svelati i pochi difetti rinvenuti in mezzo a tante bellezze, se non ci turbasse la troppo giusta temenza, che taluno sia per pubblicare in avvenire quanto crediamo di ommettere nella presente edizione.
Se mai la saggia critica ebbe d'uopo di armarsi contro la venalità tipografica, lo ha grandissimo nel caso nostro, giacchè e dal carattere dell'Autore, e dalle sue reiterate proteste ebbimo a persuaderci, che se per avventura si fosse determinato a stampar le sue Favole, sopra non molte sarebbe caduta la scelta. Era egli un severissimo giudice di sè, e de' suoi scritti; e non degenere dagli Ariosti, dai Tassi e dai Metastasj, spendeva più mesi nel ritoccare un apologo, che forse avea dettato in pochi istanti; lo che ci conferma nella opinione da noi sempre tenuta, che nelle opere di gusto le più elaborate son quelle che men ti sembrano figlie della lima e dell'arte. Ora non avendo egli potuto farla da censore con tutte, senza la scorta degli autografi, la nostra scelta sarebbe andata a pericolo d'interpretare a sinistro la volontà di tanto uomo. Ve n'ha inoltre di quelle ch'egli, quantunque bellissime, avrebbe forse condannato alle fiamme. Tali le poche, in cui sferza alquanto acremente le abitudini del vizio fortunato, e della nobiltà scioperata; e tali pur quelle, in cui il pudore e le grazie non sono sempre all'unisono. Troppo amava egli l'ordine degli ottimati, troppo eragli a cuore il costume perchè credesse di scherzare pubblicamente a spese dei primi, o di affrontare da cinico quanto detta il secondo. Noi, ch'ebbimo la fortuna di trattarlo familiarmente, possiamo attestare, che osservava il più prudente silenzio in tutto ciò che apparteneva alla morale, alla patria, e sopra tutto alla religione; nè fu vana millanteria, o bassa menzogna qualora trasmettendo ad Erminia Tindaride il suo ritratto, ebbe a dire:
Circa Roma e i dogmi suoi
Li rispetto, non li tocco;
Non è il Saggio che uno sciocco
Se ragiona con la fè.
Ben diverso da certi scrittori de' nostri giorni, cui piacque vestirsi colle penne dei Dupuy per rinvenire nella mitologia dell'Egitto, dell'Asia, della Grecia, del Lazio, gli emblemi de' più venerandi misteri della religione cristiana, ei non vide che un augusto edifizio rispettato dai secoli, e riverito dal voto concorde di tanti popoli e di tante generazioni. Checchè sia di questa foggia di letterati, noi proviamo la compiacenza di pubblicare, la mercè dei manoscritti affidatici, quanto egli stesso credette non immeritevole dell'accoglienza de' suoi cittadini. Se v'ha di che riprenderlo, se ne accagioni la morte, che gl'impedì di far meglio, o di lacerare il già fatto; lo che, avuto riguardo al suo carattere, ci sembra probabilissimo.
Dagli autografi testè mentovati ci venne pur di raccogliere, ch'ei nulla avrebbe fatto palese coi tipi, se non avesse condotto a compimento un Dizionario, in cui gl'idiotismi del nostro dialetto fossero opportunamente illustrati; e n'avea ben donde, giacchè alcuni sono così lontani dalle maniere della lingua dell'Arno, e degli altri parlari d'Italia, che niuno il quale non sia Veneziano, può cogliere daddovero nel segno. Ma simile lavoro non è che un desiderio; ei non esiste, e ci converrà supplire in qualche guisa al silenzio dell'Autore, limitandoci a que' vocaboli che più sembrano stranieri alla intelligenza di que' leggitori, che non nacquero, o non vissero lungamente fra queste maremme; lo che seguirà a guisa di annotazione quantunque volte crederemo necessario di farlo. L'impresa non riescirà tanto lunga, o tanto penosa quanto potrebbe credere alcuno, giacchè la lingua del Gritti, per riguardo alla radice delle voci, ha molta affinità coll'italiana, ossia non è che il dialetto dei colti Veneziani, i quali, abbandonate da molto tempo le prische forme rozze e popolari, parlano in guisa da essere intesi in gran parte dall'Allobrogo, dal Lombardo, dal Ligure, e da quanti vivono sotto il bellissimo cielo d'Italia.
Quanto poi alle forme della pronuncia, adottate dall'Autore negli apologhi della Fenice e dell'Invidia, stampati prima ch'ei morisse, crediamo bene di non far motto veruno, anzi di arrogarci il diritto di declinare onninamente dalle tracce da esso segnate; e ciò per due ragioni di qualche peso. La prima, perchè trattandosi di un dialetto vivente, il migliore maestro della retta pronuncia è la pronuncia stessa di que' che lo parlano; la seconda, perchè v'ha delle voci la cui musica non può essere indicata a dovere dai segni di convenzione; intorno a che la maggior delle prove sta negli inutili sforzi del medesimo Autore. Opina, a cagione di esempio che ci, ce, equivalgano a tzi, tze; che le parole cinque, cerio, celeghe, suonino tzinque, tzerto, tzeleghe; che le voci occhi, recchie, schietta, chiapi, ec. vadano pronunciate alla toscana, e valgano quanto occi, reccie, s-cieta, ciapi ec. Ma chi evvi tra' nostri che possa menar buono un simile parere? E chi non riconosce come inesprimibile il modo con cui i Veneziani pronunciano questi vocaboli? Le sillabe ci, ce sono tali che nulla hanno di comune col zi, ze di taluno, col tzi, tze del Gritti, col ci, ce dei Toscani; e il chi, chià, chiè, chiò, chiù, perdono le native sembianze ove si vogliano unisoni col ci, cià, ciè, ciò, ciù, dell'idioma parlato lung'Arno. Nè più avveduto sarebbe chi vi sostituisse la g, e in luogo di occi, reccie, scieta, ciapi, scrivesse oggi, reggie, sgieta, giapi, come opinano alcuni. Il migliore dei partiti è dunque di lasciare le cose come sono, colla speranza, che se gli stranieri al presente, i posteri in avvenire perderanno qualche bellezza musicale degli apologhi che offriamo al pubblico, verran largamente compensati dalle veneri di que' non pochi pensieri che, stando da sè, non temono le vicissitudini delle lingue e dei tempi.
Le favole non sono il solo genere intorno al quale abbia il nostro Grìtti esercitata la penna. Volle provare quanto potesse il nostro dialetto assumendo le parti di novelliere; e l'esito corrispose per guisa al suo desiderio, che le Novelle disputano con nobile gara la preminenza agli Apologhi, e questi non la cedono in pregio alle Novelle. V'ha inoltre qualche poesia dettata nella lingua dell'Arno, di cui offriremo un saggio nel ritratto di sè stesso, spedito dall'autore ad Erminia Tindaride. Qual egli si fosse in simile aringo, lo diede abbastanza a vedere nelle versioni del Tempio di Guido e della Pulcella di Orleans, già da noi ricordate; nè saranno da meno i pochi versi che stiamo per pubblicare come nuovo argomento del sommo favore di cui gli furono larghe le Muse toscane. E perciò il Cesarotti, nell'atto di magnificarlo come eccellente nel proprio idioma vernacolo, quasi pentito volle sospender l'elogio, trattandosi di uno scrittore, che a più alta meta salendo: maneggia la lingua italiana con egual maestria e felicità che la veneta22.
Così dolcemente intrattenendosi menò una vita lieta e tranquilla sino al dì 16 Gennajo dell'anno 1811, in cui da repentina morte colpito pagò l'inevitabil tributo. Contava l'anno settantesimo primo; ma la freschezza de' lineamenti, l'energia dello spirito, l'attitudine di tutte le sue facultà, ci lusingavano che non dovesse essere così vicina una perdita tanto increscevole. La sede del suo male era occulta; una lacerazione delle fibre e lacerti del cuore arrestò il corso a' suoi giorni quando meno lo credevamo. Siam di parere, che la imperturbabilità, conservata a dispetto di molte vicende spiacevoli, siagli stata ministra di quella fiorente salute che godè quasi fino agli estremi del viver suo. Non era l'infinita imperturbabilità dello Stoico, che tutto disprezza al di fuori per orgoglio, e forse tutto teme al di dentro per bassezza di animo; ma era la fermezza dell'uomo virtuoso, che sente il peso dei mali, ed ha la costanza di sostenerli. Moderato ne' suoi desiderj, sapeva essere ricco anche in seno alla mediocrità, e talvolta opporre un'impavida fronte alle minacce dell'inopia. Tal'era fra' suoi cittadini che non l'udiron mai querulo; tale fra le pareti dimestiche sempre allegrate da un ciglio sereno e tranquillo. Colui che disse, non avervi eroe dinanzi al suo servo, dipinse l'eroismo degl'ipocriti, i quali uscendo di casa prendono la maschera della virtù per illudere i meno avveduti, e ritornandovi la depongono per vendicarsi di tanto disagio, e per essere il vero tormento de' suoi. Per giudicare della bontà non mentita di un uomo, è d'uopo sapere qual sia ove non l'infreni il timore del pubblico sguardo; e se ama di essere, più che di acquistare la fama di probo, a lui compete l'onorevole encomio di Saggio. Di questa tempra fu il Gritti; noi ci appelliamo al suffragio di una virtuosa Compagna che lo adorò vivente, e dopo un lustro di così amara separazione, colle tenere lagrime meschia i non men teneri encomj dell'egregio marito23.
- Note
- ↑ Versioni delle migliori tragedie Francesi. Venezia 1788 Vol. 2 in 8.vo.
- ↑ Il Tempio di Gnido Canti VIII, e di Cefisa Canto unico. Londra 1795 in 16.mo.
- ↑ Je compte pour peu de chose le Temple de Gnide, bagatelle ingénieuse et délicate, mais d'autant plus froide qu'elle est plus travaillée, et qu'elle annonce la prétention d'être poete en prose, sans avoir rien du feu de la poesie. L'esprit y est prodigué, la grace étudiée ec. La Harpe, Licée Vol. 15.
- ↑ La Harpe, Licée Vol. 8.
- ↑ L'Acqua alta, o le Nozze in Casa dell'avaro. Venezia, Bassaglia, 1769 in 8.vo.
- ↑ Il Mecenate è sua Eccellenza il conte di A. B. C. D. E. F. G., marchese di H. I. K. L. M. N. O., barone di P. Q. R. S. T. U. V. X. Y. Z. ec.
- ↑ L'apologia comincia nel modo seguente: Prefazione piena zeppa d'istorielle e di fole vote affatto di buon senso, di grazia, e di sale. Tutto il resto è dello stesso tenore.
- ↑ Il naufragio della vita nel mediterraneo della morte, è il titolo della catastrofe. Nabuco Re vi sostiene le parti di protagonista; Cleopatra è la moglie di Nabuco; Titibio e Frine sono i figli delle loro Maestà. Orazio al Ponte generalissimo, Ippocrate medico di corte, Archimede astronomo, ec. formano il corredo degli altri personaggi. Lo scenario deve unire le piramidi di Egitto col ponte di Rialto, ed altre bizzarrie di simil fatta. L'azione termina colla morte di tutti come nel Rutzvanscad dei Valaresso. E il re, morendo, fa un soliloquio di venti versi composti di semplici monosillabi, che nulla concludono.
- ↑ Bettinelli, Opere Vol. 9.
- ↑ Opere. Vol. 2.
- ↑ Letter. Venez. pag. 192.
- ↑ Note al Fontanini V. 1.
- ↑ Omero in Lombardia. Prefaz.
- ↑ Sagg. sulla Filosofia delle Lingue.
- ↑ Purgat. 7.
- ↑ Prefaz. alle Prose Fiorentine.
- ↑ Padova, per Zanon Bettoni 1810.
- ↑ Tale l'Invidia pubblicata per le nozze Onesti; El corvo e la volpe, che entra fra le dodici stampate per le nozze Loredan-Grimani; El lovo e l'agnello, che sta fra le sei date in luce dal Portafoglio di Padova nell'anno 1813.
- ↑ Épitre IX.
- ↑ Epist. ad Pison.
- ↑ Ibidem.
- ↑ Sagg. sulla fìlosof. delle lingue.
- ↑ La sig. contessa Giovanna Giuliana Berg-Kzapski Gritti.