Trieste vernacola/La poesia dialettale triestina
1920
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Edission original: |
Trieste vernacola, Antologia della poesia dialettale triestina, a cura de Giulio Piazza, Milano, Casa Editrice Risorgimento R. Caddeo & C., 1920 |
Fonte: |
Edission e fonte ▼ | I. Lorenzo Miniussi → |
La poesia dialettale triestina non ha una tradizione.
Quando incomincia? Principia quando il dialetto si emancipa dal suo originario carattere ladino, oppure esisteva anche prima?
E, nel primo caso, perchè intorno al 1812 venezianeggia col poeta Miniussi, e nel 1875 venezianeggia ancora, benchè meno spiccatamente, col migliore poeta vernacolo che abbia avuto Trieste: con Giglio Padovàn?
La ladinità del dialetto triestino è oramai fuori di discussione. Fino a qualche decennio addietro si polemizzava ancora, e si metteva perfino in dubbio l'autenticità dei Dialoghi piacevoli in dialetto triestino del prete Don Giuseppe Mainati. Ci fu anzi, a suo tempo, chi negò bruscamente la friulanità dell'antico dialetto triestino, ingiustamente accusando il Mainati. Ma se nello scrivere le «Cronache di Trieste» il prete Mainati fu un plagiario, non per questo è lecito accusarlo di aver inventato un dialetto che non esisteva. Nella prefazione ai suoi Dialoghi, pubblicati nel 1828, egli avverte espressamente di aver voluto conservare almeno in parte la memoria di un dialetto che andava ad estinguersi e la conoscenza del quale poteva per avventura in più di un caso tornare vantaggiosa.
Certo, a primo aspetto, quel vernacolo appare molto differente da quello che si parla oggi a Trieste; ma non è solamente il dialetto triestino che subisce sensibilmente l'evoluzione del tempo. L'illustre glottologo Graziadio Ascoli afferma che «anche il linguaggio antico della città di Venezia era diverso non poco dal moderno e n'era in ispecie ben sentita la vena ladina1». E del resto, per convincersene, basterebbe confrontare il veneziano del Veniero, del Querini, del Baffo, con quello del Goldoni, e quello del Goldoni col vernacolo adoperato dal Selvatico e dal Gallina. Non può dunque recar maraviglia che a Trieste, cento anni fa, si parlasse diversamente da oggi.
Le traccie ladine o friulane, del resto, esistevano ancora nella parlata dei nostri nonni. Un vecchio triestino: il cav. Felice Machlig, morto circa dieci anni or sono, ebbe a raccontare al sac. Don Pietro Tomasin che due signorine Leo, patrizie triestine, solevano parlare quel linguaggio mezzo friulano che il Mainati ci ha conservato nei suoi Dialoghi. E ancora nel 1880 c'erano a Trieste dei vecchi che, per dire le tredici casate, dicevano le tredich chasadis. Il compianto abate Jacopo Cavalli, morto recentemente nella sua nativa Trieste, dopo aver provato l'immensa gioia di vederla redenta, raccolse con francescana pazienza i vecchi cimelii triestini dimostranti che a Trieste parlavasi a quel modo anche nei secoli anteriori; e quello illustre glottologo che fu il prof. Ascoli commentò poi con la sua profonda dottrina i cimelii stessi. I saggi del Mainati sono dunque un prezioso documento, a testimonianza della ladinità del nostro vernacolo, ed è giusto che, a questo titolo, sia loro attribuito un valore.
Le correnti veneziane si infiltrarono poi nella parlata triestina a poco a poco.
Ma nella poesia dialettale triestina — poichè è di questa che qui si vuol parlare, non di glottologia — abbiamo noi la possibilità di stabilire un preciso confine, una esatta linea di demarcazione, fra la poesia vernacola ancora ladina o friulana e quella venezianeggiante, o almeno venetizzante, venuta in onore più tardi?
Ecco. Di esempi poetici in dialetto triestino antico si aveva fino ad alcuni anni fa soltanto un sonetto tramandatoci dagli studiosi. È del 1796, ed è quasi anonimo, poichè non reca altra firma che questa: In segno de venerazion, un ver triestin. G. M. B.
Il sonetto fu scritto per la consacrazione di un vescovo, e venne pubblicato la prima volta nel Caleidoscopio di Trieste nell'anno 1845; poi fu ristampato nel 1882 nell'almanacco Il campanone di San Giusto, col seguente commento:
«Quel dialetto misto veneto che ora si parla a Trieste data dal principio del secolo nostro, quando per il forte incremento del suo commercio, a poco a poco vennero a popolarla non pochi estranei (?), allettati dalla speranza di subiti e grossi guadagni. Nei secoli anteriori, quando Trieste era ancora di àmbito modesto, i nostri concittadini parlavano un vernacolo che molto sapeva del friulano.
Ma ecco senz'altro il sonetto, con la sua brava intestazione:
In memoria per i nuestri posterior dela consacrazion fata nela glesia de San Zust martir del nov Vesco nela persona dell'illustrissem e reverendissem Monsignor Ignazio Gaetam de Buset in Feistenberg ecc. nel am 1796.
Nell'am che kì de sora xe segnà
Ai ventitrei ottober, de domenia el dì,
Nela glesia catedral che avem noi kì
El vesco nuestro pastor an consacrà.
Sua Altezza Brigido2 consacrator xe stà
Arzivescovo de Lubiana, e a lui unì,
Come prescriv la glesia, an assistì
Il vesco Derbe3 col degam mitrà.
Ai trent de chel am e de chel mess
Monsignor consacrà vesco de Buset
Ai chiolt el spiritual e temporal possess.
Grazia riendem e preghem Dio bendett
Che lo conservis de ogni mal illes
Col papa e l'imperator che l'am elett.
In segno de venerazion, un ver triestin.
G. M. B.
Nuova luce sulla antica letteratura dialettale triestina recarono poi le reliquie ladine scoperte da Attilio Hortis nelle carte triestine del 1550, le quali, come accenna il Cavalli, che le diede alla luce, stabiliscono l'anello di continuità dialettale fra il secolo decimosesto e la fine del secolo decimottavo.
Tra queste carte, evvi un poemetto satirico inedito che, secondo il Kandler, sarebbe del 1619, secondo l'Hortis non posteriore al 1709.
Come già fu accennato, tale dialetto andò poi lentamente estinguendosi, resistendo peraltro parzialmente in certi modi di dire e in certe forme grammaticali, come, ad esempio, nel ti son, derivato dall'antico triestino tu sons, che si riscontra nei Dialoghi del Mainati.
E le correnti veneziane furono così forti che nella prima metà del secolo scorso, come già accennammo, a Trieste si verseggiava quasi soltanto in veneziano.
Negli ultimi giorni di carnevale il lazzo satirico e mordace della musa popolaresca scoppiettava per bocca di Arlecchino, e per questo non inglorioso erede dell'antico Macco latino, un uomo di acuto ingegno e di vivace spirito: il dottor Lorenzo Miniussi, componeva madrigali e strambotti.
Il nostro Giuseppe Caprin, nel suo gustosissimo e pregevolissimo volume I nostri nonni, ci dà il ritratto del Miniussi: un faccione sbarbato dall'espressione bonaria, con gli scopettoni ai lati degli orecchi, come si vedono nelle incisioni raffiguranti l'Alfieri... o il Donizetti. — Vestito alla goldoniana... o quasi.
Il Miniussi, in ordine di tempo, è il primo poeta dialettale triestino, dopo spenta la parlata ladina, del quale ci sia stato tramandato qualche componimento. E coi suoi versi si inizia pertanto questa raccolta, che comprende i poeti dialettali triestini dal principio del secolo decimonono fino ai nostri giorni.
Dopo i pochi saggi che, oltre al Miniussi, ci diedero il dottor Giovanni Tagliapietra e Alessandro Revere, fratello del poeta di Osiride e dei Bozzetti alpini (care figure già da lungo tempo scomparse e che pochi vecchi a Trieste ancora ricordano), abbiamo dato posto d'onore, doverosamente, alla più pura ed artistica figura di poeta vernacolo, che abbia adornato il Pindo triestino: al Padovàn, l'arguto Polifemo Acca, che fu a Trieste uno dei più assidui frequentatori intellettuali della «Società di Minerva» e dell'antico «caffè Tommaso», da lui cantato satiricamente in un delizioso poemetto. I non più giovani lo ricordano vivamente: la fronte calva, la barba da asceta, il sorriso calmo ma bonariamente malizioso, la voce quasi fievole, ma che sapeva i contrasti e le sfumature e le piccole malizie sottili.
Giglio Padovàn, i cui versi ci appaiono tanto spontanei da farci giurare che furono scritti a penna corrente, era, invece, un limatore instancabile; ma era maestro nell'«arte di nascondere l'arte» e i suoi sonetti erano frutto di ripuliture, di correzioni, di rifacimenti assidui. Tanto, che la seconda sua pubblicazione di versi arriva a dieci anni di distanza dalla prima, ma questa volta con una precisa suddivisione delle poesie in due gruppi: quelle in dialetto istriano e quelle nel vernacolo triestino parlato dalla borghesia. Distinzione, quest'ultima, non inutile: giacche, contrariamente al Belli e al Fucini, Polifemo Acca non prende a prestito il linguaggio del popolo; non fa parlare il facchino, il monello, la fruttaiola, la portinaia. Simile in questo piuttosto ai poeti veneziani, schizza sapienti e gustosi ritratti, ma, nel farli, pènetra anche nell'anima delle figurine ritratte. Talvolta le fa parlare, monologare, e dal loro linguaggio balza fuori un demoniaco umorismo, che vi fa ridere e vi lascia ammirati.
Così, ad esempio, l'uomo metodico vi dirà di essere
- prudente, pacifico, bigoto
ma di preferire
- el fulmine del papa
- A una macia de seo sora 'l capoto.
Così di un parlatore stentato vi dirà il poeta, con immagine bizzarramente pittoresca, che
- .... el xe un pozzo d'eloquenza, ma
- Ghe vol un'ora a tirar su 'l stagnaco.
Ma l'aculeo della sua satira punge, non ferisce. La sua critica è signorile e garbata. Tutt'al più qualche lampo d'amarezza è in lui; ma questa non traligna mai nel cinismo. La politica esula quasi completamente dai suoi epigrammi. Ma tuttavia al poeta dànno santamente ai nervi i
- Montanari calai dale so grote
- Cola bisaca e cole scarpe rote,
- Che s'à cava la fame a nostre spese
- E adesso parla mal de sto paese.
E in un sonetto originalissimo il Padovàn raccoglie tutte le voci straniere che inquinavano il nostro bel dialetto, e conclude vibratamente che
- Col jègher e 'l patòc4 no se fa scola.
Dopo il Padovàn, la poesia dialettale triestina in parte si trasforma, tenta altre vie, sconfina dalla parlata borghese, si democratizza, cerca il linguaggio, più caratteristico e più rude, del popolano.
E intanto la canzonetta triestina — al cui giogo la musa di Polifemo Acca mai aveva voluto piegarsi, perchè egli la riguardava una imposizione, una cambiale a scadenza fissa — si viene librando sulle ali del vento. E molte canzonette di inspirazione patriottica, dalle allusioni più o meno velate, corrono le vie della città, ansiosa di redenzione, schiacciata dalle restrizioni della polizia austriaca: espressioni di insofferenza, canti di un popolo che morde i freni e sussulta.
- A Roma i ga San Piero,
- Venezia ga el leon,
- Da noi ghe xe San Giusto
- Col vecio suo melon...
si canta per le vie, e dall'accomunare Trieste con Roma e con Venezia balza fuori la mal contenuta impazienza della città irredenta, assetata di respirare aure di libertà.
Voio un bel puto
Ma più de tuto
Che el sia italian
sospira un'altra canzoncina.
E un'altra ancora:
Cari stornei — andè lontan.
Stornì la gente — ma in italian.
E ancora:
Viva Dante, el gran maestro
De l'italica favela!
Sempre ed ovunque, in tutte le occasioni, il pensiero alla gran Madre, il culto alla nazionalità italica.
Felice di Giuseppe Veneziàn, cugino ed omonimo di quell'avvocato Felice Veneziàn, che fu per molti anni, a Trieste, guida e mente direttiva del partito liberale nazionale, scrive poesie dalle quali traspare un mal contenuto irredentismo, come L'otimista, Un matrimonio disgrazià, L'arivo del vapor.
Deghe drento, deghe drento,
Se sfadiga, ma se va.
Vegnarà quel gran momento
Che a Trieste se sarà.
E il gran momento, infatti, è venuto, come la bell'anima del Veneziàn l'aveva presagito.
Contemporaneamente alla poesia del Padovàn e dopo di lui, dunque, la musa dialettale triestina guizza e saltella giocondamente. Talvolta nel riso nasconde una lacrima; nell'apostrofe, allegra o beffarda, un singulto. Ora sono poeti gli autori stessi della musica, come l'Urbanis e il Borghi; ora sono altri rimatori che alle note dei musicisti: Silvio Negri, Ernesto Luzzatto, Michele Chiesa, Ermanno Leban ed altri ancora, specializzatisi nel genere, prestano il facile ritmo delle loro strofette.
Ma non per questo la poesia vernacola di San Giusto esula dai volumi. Dal 1903 in poi, anzi, una nuova fioritura di poeti del dialetto triestino germoglia, accolta con viva simpatia dal pubblico dei lettori e dalle impressioni della critica.
Dal 1899 in poi il modesto compilatore di queste pagine non diede più alcun volume di rime dialettali alle stampe, ma si restrinse a portare la voce del popolano di Trieste dinanzi ai pubblici delle altre città italiane, mosso non da vana ambizione ma dal desiderio soltanto di far sapere che il vernacolo nostro, italiano come e più degli altri dialetti della penisola, aveva diritto di prender posto alla mensa comune.
Ma ecco altri poeti succedergli: Eugenio Barisòn, Ferruccio Piazza, Adolfo Leghissa, e, migliore di tutti questi, Flaminio Cavedali, dalla facile vena e dal verso limpido e ben tornito.
Nell'ultimo decennio, ecco poi una piccola schiera di poetesse salire, con fasci di vivide rose in mano, la non tanto facile vetta del Parnaso dialettale. Ecco: Gilda Steinbach ― Amoroso; Haydée ― l'Anonima Bruna, una Travetta.... Ed ecco, nello stesso tempo, i poeti-giornalisti: Augusto Levi e Carlo de Dolcetti; e gli studiosi del dialetto, come Giuseppe Stolfa: e i poeti letterari, divenuti dialettali quasi direi per un capriccio deviatorio della loro musa, più aristocratica: il Polli e la Maria Gianni.
Ma siamo al 1914. Siamo al 1915.
Ecco la guerra coi suoi fantasmi, con i suoi incubi, col suo grigiore, con le ondeggianti alternative di rosee speranze e di cinerei timori, con le sue angoscie, con le sue promesse, con le trepide attese.
Ecco l'aspettativa fremebonda che l'Italia rompa gli indugi, nella primavera del 1915, ed entri in guerra per liberare le terre irredente. Ecco lo scoppio della guerra; le infami escandescenze della plebaglia assoldata dal Governo austriaco. Gli internamenti, i confinamenti, le carceri, il terrore, la miseria, la fame.... Tutto l'orrendo satanico arsenale del terrorismo austriaco....
Molte cetre dialettali si tacquero, paralizzate. La beffa che aveva sghignazzato, scoccando i suoi dardi dinanzi agli attoniti sguardi dei poliziotti dell'Austria, ora taceva, perchè le anime, frementi nella attesa della liberazione, sanguinavano sotto il peso delle tiranniche costrizioni e attendevano il giorno del riscatto per librare al vento le loro strofe inneggianti all'Italia, sferzanti gli oppressori e i tiranni.
Pochi poterono sottrarsi alle persecuzioni del Governo austriaco. Essere italiani, e aver scritto in italiano, adergendo l'anima verso l'Italia, era considerato, naturalmente, un delitto, e andava punito.
Tuttavia, nonostante l'atmosfera di terrorismo creata dall'Austria, che sfocava contro i cittadini di Trieste la sua rabbia feroce, alcuni poeti trovarono modo di scrivere alla macchia versi patriottici. Alcune strofe, dettate dalla concitata emozione del momento, sgorgarono in forma letteraria italiana, con ritmo ed accento mercantiniano, dalla facile penna di Maria Gianni, carcerata dall'Austria nel castello di Lubiana, e poi internata.
Ma quel periodo, quegli stati d'animo, quelle sofferenze fecero d'altra parte vibrare poche cetre dialettali, forse perchè il dialetto triestino, mentre ottimamente si presta alla beffa mordace, male si piega all'espressione del dolore sdegnoso che prorompe da un'anima sanguinante, sentimento questo che va quasi sempre congiunto, anche involontariamente, ad una certa elevatezza di linguaggio letterario.
Nondimeno, di alcuni versi vernacoli si compiacquero, in quel periodo di tempo, le gentili fantasie della stessa Maria Gianni, di Gilda Amoroso, di Carlo de Dolcetti, di Giuseppe Stolfa....
Detto ciò, qualche noticina ancora ci sia concessa sulla parlata triestina.
A Trieste, come altrove, ma anche più forse che altrove, il dialetto della borghesia si differenzia da quello parlato dal popolo. Piccole diversità di suoni, di costruzione grammaticale e anche di terminologia, si riscontrano anche fra un rione popolare e l'altro. In qualche quartiere si avvertono piccoli resti di tradizione friulana o ladina; in altri, desinenze e vocaboli più simili al veneto. Comunque, riteniamo che il vernacolo triestino sia, in generale, uno dei più accessibili a tutti. È più rude del veneziano, e, se vogliamo, anche più sgrammaticato, e diversifica da quello sopratutto nella desinenza della terza persona dei verbi della seconda e terza coniugazione al presente indicativo. Mentre il veneziano dice: «la capisse, la vede», il triestino dice: «la capissi, la vedi». Ma nonostante la presupposta accessibilità del dialetto triestino ai più, abbiamo ritenuto opportuno di corredare ogni singolo componimento poetico contenuto in questo volume, di note esplicative, atte a chiarire il significato dei vocaboli che più si scostano dalla lingua letteraria.
E ci sarà appena bisogno di accennare ora allo scopo prefissosi dal compilatore di questo volume: additare al lettore come la poesia dialettale sia da molti anni studiata e coltivata con amore a Trieste; — fargli notare quanto italiano sia in tutte le sue sfumature il vernacolo della nostra Città e quanto italiani lo spirito e il sentimento di chi lo parla; far rilevare, non senza un certo senso di legittimo orgoglio, fatto di amore alla patria ed alla nostra nazionalità italiana, come nel vasto e olezzante giardino della letteratura poetica dialettale, anche Trieste abbia gettato semi fecondi e abbia veduto germogliare i suoi fiori.
E alla piccola musa vernacola, umile ma gentile come la violetta mammola dei prati, vorremmo dire anche noi ciò che il poeta veneziano Maffeo Veniero scriveva nel secolo decimosesto alla sua Strazzosa:
Va pur cussì che sta umiltà te inalza;
Va povereta! altiera
Cussì coi piè per tera,
Che ti è pi bela quanto pi descalza!
GIULIO PIAZZA.
- Note
- ↑ G. I. Ascoli: L'Italia dialettale. Tomo I dell'«Archìvio glottologico». Saggi ladini, § 4 (Ermanno Loescher, 1873).
- ↑ Cioè il patrizio triestino Michele barone de Brigido, arcivescovo di Lubiana.
- ↑ Francesco barone de Raigersfeld (?), vescovo di Arbe. Bernardino Camnich, ex decano mitrato del Capitolo di Trieste.
- ↑ Jäger è vocabolo tedesco che vuol dire cacciatore; patok è sloveno e significa torrente.