Commedie e Poesie Veneziane/Riccardo Selvatico e la sua generazione

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Riccardo Selvatico e la sua generazione
1910

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Riccardo SelvaticoCommedie e Poesie Veneziane, a cura de Antonio Fradeletto, Milano, Fratelli Treves editori, 1910

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Indice:Selvatico - Commedie e Poesie Veneziane, Milano, Treves, 1910.pdf

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RICCARDO SELVATICO
E LA SUA GENERAZIONE
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Chi assistette, fanciullo, alla liberazione di Venezia dal dominio straniero, mai non dimenticherà la gioia come di primavera che si effuse e vibrò nell’aria in quel tardo autunno del 1866. Mentre le sciabole austriache percotevano ancora il lastrico delle strade, nelle case le donne cucivano secretamente i lembi del tricolore e quell’affaccendarsi furtivo mesceva un non so che di trepido e solenne alla letizia dei nostri giuochi infantili. E con che lagrime contemplarono i vecchi, con che fremiti salutarono i giovani l'improvviso ondeggiare dei colori della patria dalle antenne di San Marco, lungo il Canal Grande, per le calli, per i campi, sullo specchio angusto dei rii! Pareva che in quelle pallide giornate di ottobre tutto s’infiorasse di speranza, i cuori come le pietre.

Calmata appena la prima ebbrezza, le tenne dietro l'ansia di riconquistare il tempo miserevolmente perduto. Fu allora un’esplosione di nuove idee, una affermazione un po’ tumultuaria di nuovi intenti, un dilatarsi dei polmoni in quel respiro di fede che è il massimo beneficio della libertà. Poco dopo, per una di quelle coincidenze che si direbbero auguri e non casi, l'apertura del Canale di Suez parve do[p. iv modifica]vesse ricondurre all’esausta Città una corrente di traffici sviata da secoli. Illusioni molte e non pochi errori, perchè le accidie forzate o deliberate della servitù non avevano consentito all’esperienza di maturare, perchè alla Venezia senilmente aristocratica, morta settant'anni prima, non era peranco succeduta una Venezia giovanilmente borghese. Errori nell’ordine pratico; ma nell’ordine intellettuale gli anni che tennero dietro al 1866 furono genialmente fecondi, perchè gli entusiasmi, le illusioni medesime valsero a formare un'atmosfera luminosa e calda in cui sbocciarono i germi delle cose belle. — Risuscitare le più nobili tradizioni cittadine, ma ampliandole, rammodernandole, disposandole a concetti nuovi, fu il sogno di allora; sogno che fallì spesso nelle prove della vita, ma che era destinato a vittoria in quelle dell’arte.

*

Venezia morente aveva avuto un meraviglioso teatro. Perchè non doveva averlo Venezia rinata? E perchè i giovani non venivano a lui, che avrebbe saputo comprenderli e incoraggiarli? — Questo chiedeva a sè e diceva agli amici Angelo Moro-Lin, il nobiluomo veneto decaduto, che da segretario e suggeritore nella Compagnia piemontese del Toselli, s’era fatto fondatore e capo di una nuova Compagnia veneziana, la quale andava recitando dinanzi alle affollate platee i capolavori del Goldoni e i lavori pie[p. v modifica]montesi tradotti e ridotti. Lo rivedo ancora. Larga faccia sbarbata, dal sorriso caustico e dal naso di una aquilinità prominente, egli pareva riprodurre, meno la parrucca e la toga, un ritratto di Alessandro Longhi. Dicitore frettoloso, grande improvvisatore di pistolotti, possedeva però alcuni doni invidiabili: l’amore per la gioventù, la religione goldoniana per quanto non sempre ortodossa, una serenità intrepida nelle traversie della vita, un nativo buon senso che temperava ad ora ad ora la psicologia un po’ illogica e fatua dell’uomo di teatro.

Un giovine, finalmente, venne a lui, con un manoscritto. Era Riccardo Selvatico. Contava poco più di ventun’anni1; apparteneva all’agiata borghesia; era vissuto fino allora nell’intimità domestica e fra gli studî; irrequieto e versatile d’ingegno, delicatissimo d’animo, osservatore penetrante, dialettico inesorabile e discutitore inesauribile. Angelo Moro-Lin divorò il manoscritto, abbracciò il giorno appresso l’autore trepidante e la sera del 27 febbraio 1871 rappresentò La bozeta de l’ogio. Era una svelta successione di scene in cui la strada si ripercoteva nella casa, un gaio episodio della vita popolaresca negli ultimi giorni del risorto carnevale; e gli spettatori che riudivano, dopo il lungo silenzio, le care voci domestiche, applaudirono fragorosamente per più sere di seguito.

Venezia ritrovava una vena smarrita del genio paesano. [p. vi modifica]

Quattro mesi prima, in un altro teatro, si era recitata, per una sera sola, freddamente accolta, L’Ipocrisia, commedia di un altro scrittore esordiente: Giacinto Gallina. Era poco più che diciottenne 2; timido e rude, fuggiva i garbati ritrovi; doveva a malincuore sonare il violoncello nelle orchestre dei teatri e dar lezioni di pianoforte; nelle ore libere, chiuso nella sua stanza, abbozzava novelle e drammi o declamava a perdifiato qualche lettera del Jacopo Ortis, qualche capitolo del Guerrazzi. Il suo sogno d’arte sarebbe stato allora il lirismo scenico, la passione, la tesi moraleggiante, il dialogo a immagini e metafore, condito di qualche pizzico di sale ciconiano. Paragonata a quel sogno, che povera cosa non doveva parergli la semplicità vernacola de La bozeta de l’ogio?... «Mi ero ben guardato dall’assistere a quelle scene popolari, scritte come parla la gente del volgo, senza intendimenti filosofici, senza slanci lirici, senza vaporosità azzurre». Ecco il primo giudizio che Giacinto Gallina diede di Riccardo Selvatico, al quale più tardi doveva legarlo un’amicizia durata fino all'ora della morte.

Senonchè, non erano trascorsi otto mesi dalla prima recita de La bozeta, che già il Gallina, mortificato per la caduta dell’Ambizione di un operaio e [p. vii modifica]sollecitato da Angelo Moro-Lin a dargli una commedia veneziana, smetteva a forza il suo sogno romantico e pigliava in mano il Goldoni. Allora... «...lessi, studiai, non so come mi si sviluppò improvvisamente il senso della realtà, imitai una delle sue commedie «La famiglia dell'Antiquario» e scrissi «Le Baruffe in famegia...»

Riccardo Selvatico fu, dunque, l'iniziatore. Le Baruffe in famegia vennero rappresentate nel gennaio del 72; Una famegia in rovina, il capolavoro della prima maniera galliniana, nel dicembre dell'anno stesso; nel 73 era esposta e lodata la Lezione di anatomia di Giacomo Favretto 3; ma solo alcuni anni dopo comparivano i primi quadri veramente caratteristici e geniali, caldi di tavolozza e scintillanti di brio del giovine pittore, avverandosi anche qui la precedenza cronologica della letteratura sulle arti figurative, tante volte avvertita nelle correnti della produzione e del gusto. E tutti e tre, il Selvatico, il Gallina, il Favretto, parevano in certo modo risalire il secolo fortunoso e riallacciarsi al settecento: i due primi alla fantasia comica di Carlo Goldoni; il terzo, a Pietro Longhi per la graziosa tenuità dei soggetti, al Canaletto e al Guardi pel senso fresco e vivo dell'ambiente. [p. viii modifica]

*

Ma all’artista questo ritorno ideale non riusciva difficile, perchè Venezia, a malgrado delle cose belle che scomparvero e delle cose brutte che sorsero, è tra le grandi città italiane quella che conserva più di ogni altra le antiche sembianze. Voi incontrate ancora i campielli con le altane fiorite sopra i tetti e le ricamatrici o le perlaie sedute sulla soglia degli usci; i cortiletti ammattonati con la vecchia scala scoperta in un angolo e il pozzale scolpito nel centro; gli squeri dal gruppo d’alberi che proiettano la loro ombra sul canale verdastro, ove s’affonda a mezzo qualche carcassa impeciata; i traghetti ombreggiati dalla vite e animati da un dialogo mordace di gondolieri; e ancora nei giorni di sagra i davanzali si avvivano di stoffe d’ogni colore e svolazzano le orifiamme e luccicano i lampadari di Murano e le frittelle fumano sui larghi piatti di metallo e tra la folla ciarliera spiccano avvolte negli scialli rossicci, pagliefini, verdognoli, le ragazze dai capelli bruni o tizianescamente accesi...

Per il pennello, dunque, le cose e le figure potevano serbare pressochè immutata l’antica fisionomia. Ma le anime per il poeta? Potrà il poeta, pure adorando l’arte goldoniana, rispecchiarsi nella sua imperturbabile limpidità? No. Troppo i tempi sono diversi. Venezia ha visto cadere ingloriosamente la logora oligarchia; ha conosciuto i corrucci e i tormenti della servitù; si è levata a rivolta, sfidando la [p. ix modifica]fame e la morte; è stata nuovamente e duramente compressa; ha imparato a meditare tra le angustie il problema della vita anzichè, come gli avi, ad obliarlo tra le feste; oggi essa sente agitarsi in sè e attorno a sè altri bisogni, altri propositi, altre speranze, altre tristezze... e allora anche l’antica, sorridente limpidità della scena vernacola viene velandosi di nuove ombre di pensiero e palpitando per nuovi moti d’affetto.

Ma accade assai di raro che uno stato morale e sociale si rifletta nella letteratura, senza il concorso di qualche forma o atteggiamento d’arte che abbia con quello stato un’analogia visibile o recondita. Questa forma d’arte fu, nel caso nostro, il teatro piemontese.

Una sottile analisi mostrerà dove e come la sua azione si sia particolarmente esercitata; ma io crederei di poter affermare fin d’ora che si esercitò sopra tutto con la vena del sentimento, con una concezione più grave dei doveri della vita, con la rappresentazione tra comica e patetica de’ nuovi tipi della piccola borghesia. Ecco i tre elementi che contribuirono anch'essi, in misura maggiore o minore, a modificare le forme e gli spiriti dell’arte goldoniana.

E questo scambio d’influssi fra due grandi e diverse famiglie italiane parve quasi personificarsi nella figura di Marianna Torta-Morolin — la moglie di Angelo — la quale, da prima attrice della Compagnia piemontese del Toselli, diventava coll’anno comico 1868-69 l’anima della nuova Compagnia veneziana. [p. x modifica]Attrice cara, indimenticabile, che nella sua semplicità casalinga e nella modestia ignara di ogni posa intellettuale, ebbe l’intuito sicuro dell’arte scenica, che seppe l’onesto riso e l’accorato singulto, che recitò davvero come si parla, se si potesse parlare sempre con misura e con finezza!

*

Una famegia in rovina di Giacinto Gallina, rappresentata, come ricordavo, sulla fine del 1872, è la prima commedia del nuovo teatro veneziano in cui alla celia s’alterni qualche lagrima; El moroso de la nona, questo soave idillio canuto, è del 1875. Il 4 aprile 1876 Riccardo Selvatico dava alle scene, con esito clamorosamente felice, I Recini da festa.

Ne La bozeta de l’ogio la forma è briosa, ma l’osservazione superficiale e continui i ricordi e gli spunti goldoniani. Nei Recini assistiamo ancora ad un episodio della vita popolaresca, ma ben più intimo e ritratto con tono incomparabilmente più fine. Qui una discreta emozione interviene a raggentilire il realismo delle situazioni e dei tipi, senza abbellirli artificialmente; qui, con novità ardita alla luce della ribalta, il vero protagonista è un neonato, attorno al quale si aggirano tutte le speranze e le. trepidazioni dei personaggi e che promuove alla fine, dall’inconsapevole culla, la sospirata composizione di un dissidio domestico. Perchè, mentre Giacinto Gallina comprese e rese in modo mirabile la poesia [p. xi modifica]malinconica dei capelli bianchi, pochi sentirono come Riccardo Selvatico la poesia innocente dell’infanzia: l’uno, mente più raccolta, amava considerare con occhio pensoso la vita che si chiude; l’altro, cuore effusivo e paterno, sorrideva con tenerezza alla vita che s'apre.

Fra i due artisti v’era stata, così, una specie di reciproco ausilio: Riccardo Selvatico aveva dato il primo esempio e il primo impulso; Giacinto Gallina l’aveva ricambiato con esempî più larghi e con impulsi più profondi. Ma la tempra era diversa. Il Gallina, ingegno poderoso e sintetico, procedeva per tratti compendiosi e non curava di lasciare attorno al metallo delle sue opere, anche migliori, le bave della concitata fusione; il Selvatico, spirito inappagabilmente analitico, si indugiava con trepida religiosità su tutti i particolari, tanto da riuscire a fondere e a cesellare ne I Recini da festa un lavoro squisito di oreficeria artistica.

Concatenazione armonica di scene, evidenza rappresentativa di caratteri, innesto temperato di motivi sentimentali nella trama comica, spigliatezza briosa di dialogo, venezianità irreprensibile di parola: tali le virtù che fanno di questa commedia una tra le cose più perfette del moderno teatro veneziano.

*

Ma la perfezione e il trionfo dei Recini parvero, come accadde ad altri ingegni eletti e coscienziosi, e [p. xii modifica]saurire le facoltà creative di Riccardo Selvatico. Seguì allora un lungo periodo di ricerche, di tentativi, di ondeggiamenti, di irate ribellioni e di tedio profondo, il quale a me, che ne fui testimonio, fece spesso pensare che l’artista ha diritto ad un po’ di gioia e di ebbrezza compensatrice meno assai per lo sforzo fecondo delle opere condotte a maturità che per l’intimo strazio delle opere abortite!

Anche la vita di Giacinto Gallina comprende un penoso periodo di sterilità, che comincia col 1880 e arriva al 1888; ma di quella sterilità assai diverse erano le cause. Egli aveva già dato al teatro una produzione mirabilmente copiosa — dodici commedie e non era ancora trentenne! — ora sentiva la prima inspirazione farsi un po’ stanca, intuiva gli avviamenti nuovi del pensiero e dell'arte, non poteva nemmeno sfuggirgli (se pure la critica gli lo avesse taciuto) che l’originaria tendenza romantica gli forzava talvolta la mano, suggerendogli dopo la contenuta dolcezza del Moroso de la nona, la sentimentalità melodrammatica de La Chitara del papà, e dopo il miracolo gentile degli Oci del cuor, la sentimentalità sermoneggiante de La mama no mor mai. Rinnovarsi rimanendo sincero, — era il proposito e il tormento di Giacinto Gallina.

In Riccardo Selvatico la crisi nasceva, per contro, dall’eccesso dello spirito analitico, il quale si manifestava con la simultanea molteplicità delle vedute, con lo scrupolo meticoloso della forma, con la manìa dell’assoluto e del perfetto, con l’assillo inesora[p. xiii modifica]bile dell’autocritica. Appena concepita un'idea, egli vedeva stendersi attorno ad essa la fitta rete delle idee collaterali e su ognuna di queste si soffermava a ragionare così sottilmente da smarrire il senso esatto del loro valore relativo e dei loro rapporti prospettici. Quanto alla forma, egli avrebbe voluto che la parola non si facesse mai scorgere per sè medesima, ma si dissimulasse nel pensiero che si proponeva d’esprimere e gli desse interamente fondo; sicchè la scelta d’una similitudine, d’una associazione di vocaboli, di un epiteto, di un avverbio, gli costava una torturante perplessità. Ma l’autocritica era sopra tutto il suo veleno. Ogni qual volta quella nobile fantasia riusciva a ordire una tela, la malefica intrusa sopraggiungeva e con le dita irrequiete ne tentava così insistentemente i fili, da scomporli e strapparli. E quante di queste tele non vidi scomposte e strappate con una crudeltà che sapeva di suicidio intellettuale! Quante inspirazioni sceniche, sul punto di spiegare le ali, non morirono assiderate nelle carte dello scrittore!

Una di esse riuscì un giorno a spiccare il volo, ma non colle sole sue forze; e fu volo breve e stanco. Riccardo Selvatico aveva ideato un quadro graziosamente comico delle ingenue ignoranze campestri dei veneziani — che doveva intitolarsi Un logheto in campagna — e ne aveva già steso parecchie scene. Giacinto Gallina si unì a lui e da questa collaborazione uscì Pessi fora d’acqua (1882). Qualche dialogo fine ed arguto, qualche trovata, qualche si[p. xiv modifica]tuazione teatralmente efficace; ma tutt’insieme nè organismo di vita, nè equilibrio d’arte. La natura e i metodi dei due scrittori erano troppo disformi: l’uno amava disegnare preciso e minuto, l’altro procedeva largo, rapido, magari tumultuario e scorretto; ora, lavorando insieme, o meglio insieme improvvisando (perchè il secondo e il terz’atto furono quasi improvvisati) le loro qualità, invece di integrarsi, reciprocamente si menomavano. Un’alleanza di temperamenti contrarî può essere comportabile in amore o in politica; ma in arte, non sembra.

*

Durante questo periodo di infecondità drammatica, Riccardo Selvatico si diede a comporre le sue prime liriche dialettali e lo fece quasi a svago e conforto. La brevità loro gli consentiva più facilmente di elaborare lo stile con la finezza agognata e il concetto ch'egli si era formato, a parer mio giustamente, della poesia vernacola, veniva a scemargli la fatica e i dubbî della ricerca. Per lui, infatti, codesta poesia non doveva essere troppo individuale, bensì piegarsi docilmente quel particolar modo di concepire e di sentire che è proprio delle collettività regionali o municipali; non doveva esprimersi in maniera diversa, ma solo in forma più efficace. — Quando — egli mi diceva un giorno — la poesia vernacola presume di tradurre idee e sentimenti troppo raffinati, troppo alieni dalla coscienza locale, essa ha del dia[p. xv modifica]letto la veste non l’anima, le sillabe e le desinenze non l’intima voce. —

Ora, la letteratura veneziana vanta una tradizione classica, e le tradizioni classiche lasciano dietro a sè, almeno nei temperamenti più eletti, certe abitudini istintive di misura; esse sono come una educazione superiore, trasmessa di padre in figlio in una grande famiglia, che insegna a dire con garbo anche le cose più arrischiate. Non basta. Poichè ogni linguaggio si imbeve e colorisce delle sensazioni circostanti, dovete aggiungere alle tradizioni la natura sovranamente tranquilla di Venezia, quel delicato rammorbidimento di tutte le impressioni, che ne fa l’asilo ideale d’ogni anima offesa dal tumulto della vita presente. In una poesia che voglia interpretare davvero il genio di questa città, gli effetti troppo vistosi e romorosi sarebbero una violenta stonatura, come gli squilli e i clamori che echeggiano per le strade e le piazze delle metropoli moderne intronerebbero intollerabilmente orecchi e cervello nell’angustia pacata delle calli e dei campi veneziani. Di qui una nota peculiare della Musa veneziana: la carezza, — carezza di molli suoni e di tenere espressioni, di pensieri e d’immagini, di forme diminutive e vezzeggiative. Chi non ricorda, ad esempio, le ninne nanne popolari, ove il linguaggio materno trova similitudini ed accenti d’una dolcezza incomparabile?... Leggete ora la ninna-nanna che Riccardo Selvatico pone sulle labbra di una giovine madre intenta a rammendare il vestitino del bimbo, che non riesce a chetarsi nella sua culla: [p. xvi modifica]

          Andemo, vissere,
          Sera i to ocieti,
          Fin che mi resto
          Per sti intrigheti;
          Za fasso presto!
          E co’ li termino,
          Subito mi
          Vegno co’ ti.

          In cheba, vardilo,
          Fin l’oseleto
          El xe una bala
          Col so becheto
          Soto de l’ala;
          Via dunque subito
          Fa come lu,
          No pianzer più.

          Questi che tugola
          Sora l’altana
          Xe colombini
          Che fa la nana
          Ai so putini;
          E se le bestie
          Le fa cussì,
          Dormi anca ti.

          Po’ se ti buleghi
          Tanto sul leto,
          Ti sa che arente
          Ne sta el vecieto
          E ch’el te sente;
          Che s’el ne capita
          De suso lu,
          Poveri nu!

          Via, dunque, scondite,
          Fichite soto:
          Dormi, amor mio,
          Che za deboto,
          Varda, ò finîo;
          No voi che meterte
          Sto taconsin
          Sul to abitin.

Venezia — fu cento volte ripetuto — è la Città dell’amore. S'intende. Qui dove tutto vi tiene come sospesi in un mondo chimerico, la passione sembra acquistare il diritto di sciogliere i freni comuni della virtù; qui, ogni oggetto, ogni aspetto sensibile, anzichè turbare il sogno silenzioso con cui esaltiamo la creatura amata, lo asseconda e gli presta la complicità della sua ammaliante e quasi irreale bellezza. Voi le [p. xvii modifica]vedete di continuo queste coppie di sposi e di amanti; o meglio, esse si offrono al vostro sguardo per i loro atteggiamenti di felicità dominatrice. Passeggiano con una specie di ritmica alterezza lungo il Molo; si lasciano cullare dalla gondola nelle notti di plenilunio che gittano intorno strascichi oscillanti di gemme o nelle notti negre animate solo dalle fosforescenze e dal borbottio dell’acqua; si soffermano come infantilmente trasognate nella Piazza fulgida di sole, tra uno stuolo svolazzante di colombi; s’appoggiano in silenzio, la mano chiusa nella mano, alla balaustra del giardino reale, di fronte alla conchiglia palladiana di San Giorgio. Accostateli: l’anima loro trabocca dalla muta carezza dello sguardo, dagli ingenui abbandoni, da qualche stretta repentina, irrefrenata, che si direbbe la conclusione visibile di un ardente colloquio interiore...

E così Riccardo Selvatico esprime popolarescamente l’anima amorosa della sua città:

          No gh'è a sto mondo, no, Çità più bela,
          Venezia mia de ti per far l’amor;
          No gh’è dona, nè tosa, nè putela,
          Che resista al to incanto traditor.
     
          Co un fià de luna e un fià de bavesela
          Ti sa sfantar i scrupoli dal cuor;
          Deventa ogni morosa in ti una stela
          E par che i basi gabia più saor.
     
          Venezia mia ti xe la gran rufiana,
          Che ti ga tuto per far far pecai:
          El mar, le cale sconte, i rii, l’altana,

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          La Piazza e i so colombi inamorai,
          La gondola che fa la nina-nana...
          Fin i mussati che ve tien svegiai.

Venezia — dicevo ancora — è fra le grandi città italiane quella che forse meglio conserva l'antica fisionomia. Per ciò, in nessun altro luogo possiamo così facilmente rievocare le fole e le celie del buon vecchio tempo. I pittoreschi campielli, con le altane sui tetti e i balconi all'ingiro, pronti a popolarsi di teste scarmigliate e ad echeggiare di voci e di canti, si direbbero espressamente disposti a teatro di qualche gaia avventura. Arlecchino e Brighella e Pantalone sono morti, ben veramente morti; ma se potessero ritornare al mondo, ritroverebbero qui molte cose che predilessero; e queste dolci cose superstiti concedono a noi di risuscitare talvolta i loro fantasmi. Ecco, è un giorno d'inverno; un soffice strato di neve copre il lastrico del campiello, ricolma il coperchio del pozzo, arrotonda le sporgenze, persegue e ingoffisce le linee bizzarre dei fumaioli, stende un cuscino lungo i cornicioni e impone una cuffia ai fanali; le case all'intorno, mute, come prese da un brivido, hanno l'aria di stringersi più intimamente fra di loro; il tacito scenario bianco sembra nell'attesa di qualche singolare apparizione che lo ravvivi. Una finestra si apre cautamente, ne sporge un ceffo nero, un vestito dai colori appezzati; è Arlecchino che guarda e commenta lo spettacolo con una vena tra freddolosa, gastronomica ed erotica e con l'agile metro in cui si ripercuote l'irrequieto dinoccolio delle membra: [p. xix modifica]


          Parona, la casca!
          La varda che fiochi!
          La casca, la taca,
          La vien a balochi.

          Che gusti, che godi!
          La taca e in altana
          I copi coverti
          Par piati de pana;

          De pana, parona,
          E ben preparai,
          Che tuti i camini
          Xe storti impirai.

          Che gusti, che godi!
          Da basso el campielo
          La varda co’ lisso,
          Co’ bianco, co’ belo,

          El par una torta,
          Dasseno che mora!
          Co’ tuta la giazza
          Butada per sora.

          El pozzo de mezo?
          Oh caro! un budin
          Coverto pulito
          De zucaro fin.

          Mi solo a pensarghe,
          Bisogna che ingiota;
          Parona, la tasto?
          O cagna, la scota!

          La scota e l’è giazzo,
          Vardè che barona!
          L’è proprio compagna
          Del cuor de la dona.

          Oh Dio! ma che sgrissoli,
          Devento un sorbeto;
          Parona, coremo,
          Fichemose in leto.

          Corema, parona;
          La varda, oramai
          In scufia da note
          S’à messo i ferai.

          Oh Dio che delizia!
          Sentir sto supieto
          E intanto voltarse,
          Niciarse al caldeto.

          Che gusti, che godi!
          Go’ caldo e xe giazzo,
          Go’ el cuor che me sbisega,
          So’ tuto un tremazzo,

          Perchè — ghe lo digo,
          Parona, in scondon —
          Ancuo Colombina
          Co’ un far cocolon

          Tremando dal fredo,
          M'à dito cussì:
          Se dura sta neve,
          Me scaldistu ti?

Ma più volentieri che alla pura fantasia, Riccardo Selvatico attinge direttamente alle realtà tangibili o [p. xx modifica]interiori. È la deliziosa ninna-nanna che or ora vi ricordavo; è il desiderio acceso e trepido che precede le nozze; è il vago rimpianto che le segue; è l’uomo che rifà il vecchio sogno di convertirsi in animale per vivere con più intimo abbandono presso la donna amata e per compiere più liberamente le sue allegre vendette; è l’artista medesimo che sente la propria impotenza dinanzi all’incanto divino d’una notte estiva; è la fine del lavoro quotidiano e l’uscita clamorosa delle operaie; è la mamma della bimba morta che non sa credere alla sua sventura...

Quante volte poeti e pittori non avevano cantato o dipinto la calèra veneziana, col suo misto originale di sguaiataggine e di grazia? Non mai, però, le nostre popolane erano state ritratte nella loro irrompente collettività, quando l’anima, compressa dalle angustie o infrenata dalla disciplina del mestiere, si espande in un gran respiro d’affrancazione, appena varcata la soglia della casa o dell’opificio. Questo fece Riccardo Selvatico. Scoccano le quattro; la fabbrica spalanca le sue porte; le sigaraie, dopo avere per tutto il giorno scelto, mondato, arrotolato la foglia, si sentono libere, libere finalmente sul lastrico, lo invadono a squadre, passano e dileguano come una raffica umana sfrontata e gioiosa...

          Bate quatro e za scominsia
          Nel silenzio de la strada
          Fin alora indormenzada,
          A sentirse da lontan

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          Come un susio che in distanza
          Da prinçipio xe confuso,
          Ma che ingrossa, che vien suso
          Co’ una furia de uragan.
          
          Le xe lore, za le ariva,
          Za le spunta, za in t'un lampo
          Case, strada, ponte, campo,
          Tuto introna de bacan.
          
          Le xe lore, le xe tose,
          Le ga el viso fresco e tondo,
          Le vien via sfidando el mondo,
          Imbriagae de zoventù.
          
          Zavatando per i ponti,
          Le vien zoso a quatro in riga,
          Par che a tuti le ghe ziga:
          Largo, indrio, che semo nu!
          
          Za la zente su le porte
          Sta a vardar la baraonda,
          Che infuriando come un’onda
          Urta, spenze e passa in là:
          
          Qua un vecieto scaturio
          Va tirandose drio al muro:
          Là una vecia, più al sicuro,
          Varda e ride dal balcon.
          
          Ma le ariva e za le passa,
          El xe un refolo de vento,
          Za el fracasso in t'un momento
          Va perdendose lontan.
          
          E la strada per un punto
          Da quel ciasso desmissiada,
          Quieta, straca, abandonada,
          La se torna a indormenzar.

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Questa poesia veneziana — voce di un popolo giocondo — s’era assai di raro vestita a lutto; nè mai, fino ai giorni nostri, ci aveva dato un componimento elegiaco che potesse competere per valore d’arte con quelli giocosi e satirici. Antonio Lamberti, vissuto tra la seconda metà del secolo XVIII e il primo trentennio del XIX, scrisse un Inno alla Morte, che è una esercitazione scolastica; il suo contemporaneo Pietro Buratti, il più robusto e vario tra i vecchi poeti veneziani, dedicò alla memoria di un suo figliuoletto, consunto da terribile malattia, due canti; ma il primo, dopo avere esordito con un’eloquente apostrofe alla Provvidenza, che il poeta non sa negare nè affermare, si smarrisce in digressioni verbose e retoriche; e il secondo comincia sur un tono così goffamente alcadico, che i lampi susseguenti d’affetto non bastano più a rianimarlo. Diceva il Buratti per giustificarsi: «El vernacolo, spogio del puntelo bernesco o del satirico, dificilmente se tira su col solo aiuto de la poesia, per la grandissima razon che l’altezza de le idee fa i pugni co’ l'umiltà del linguagio». — Riccardo Selvatico pensava diversamente; pensava che la poesia del dolore deve allontanare da sè fin l’ombra della ricerca verbale e che quanto più dimesso si manterrà il suo linguaggio, quanto più i suoi tocchi e le sue immagini saranno tratti dalle consuetudini giornaliere, tanto più il nostro cuore ne resterà preso e commosso.

E all’angoscia materna egli prestava l’umiltà singhiozzante di questa voce: [p. xxiii modifica]

          Dove xe quela testina
          Cussì bionda e rizzolada,
          Che trovava ogni matina
          Co’ me gera desmissiada?
          
          Dove xelo quel viseto
          Fresco come un gelsomin
          Che vedeva a piè del leto
          Rampegarse a pian pianin?
          
          Dove xeli quei do ocieti,
          Quela boca cussì bela,
          Quei sestini, quei zigheti,
          Quela vose dove xela?
          
          No xe qua in sta camareta
          Dime, amor, che ti saltavi?
          No xe qua su sta toleta
          Che fin gieri ti zogavi?
          
          No xe qua in sta cocetina
          Tuta nova e a lustrofin,
          Amor mio, che la testina
          Ti pusavi sul cussin?
          
          Che se intorno tuto quanto
          Xe l’istesso co fa gieri,
          Come mai de ti, amor santo,
          S’à da dir che ti ghe geri?
          
          Come mai? Ma no, mi spero
          Che ti dormi e che ti tasi;
          Che ti vogi, no xe vero?
          Che te svegia coi mii basi,
          
          E mi vegno, levo suso,
          Varda, vegno, son alzada;
          No, no rider se me puso,
          Sarò un poco indormenzada.

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          Oh Signor, tolème in pressa,
          Più no gh’è su quel letin
          Che una piavola de pessa
          E una busa sul cussìn.

Le poesie raccolte in questo volume sono troppo scarse di numero; ma la scarsità compensano col pregio squisito dell’arte; anzi alcune tengono il primo posto nella letteratura poetica veneziana di tutti i tempi 4. Spontanee di inspirazione, localmente caratteristiche di contenuto, esse rispettano con ogni scrupolo la parlata nativa, nel suo vocabolario, ne’ suoi atteggiamenti, nel suo spirito, nel suo ritmo. Certo, quando il pensiero si eleva o l’affetto s’infiamma, anche la frase dialettale tende a modellarsi sulla frase italiana; ma sempre, o quasi, con parsimonia e con discernimento. Gli stessi tratti maliziosi che succedono inaspettatamente a quelli sentimentali non sono affatto una trovata letteraria, una specie di imitazione heiniana, bensì uno di quei subitanei movimenti realistici e umoristici che appartengono in proprio alla Musa dialettale e che giovano a preservarla dalla svenevolezza quand'è gentile o dall’enfasi quand'è appassionata. La breve ed eletta produzione di Riccardo Selvatico può dirsi, dunque, una pianta che l’artista ha coltivato con industria amorosa, ma sotto il [p. xxv modifica]libero cielo, sul terreno storico di Venezia, non già in un tepidario intellettuale. Per questo, essa rimarrà viva e cara, fino a quando la musica vernacola delle lagune non si dissolva per sempre — se mai arriverà del tutto a dissolversi — nella crescente unità del linguaggio nazionale.

*

A Milano, la sera del 21 aprile 1890, mentre in una festevole riunione della Famiglia Artistica Riccardo Selvatico stava recitando qualcuna tra le sue poesie, gli fu rimesso il telegramma con cui gli amici di parte democratica gli annunciavano la sua nomina a Sindaco di Venezia.

Nel 1889 le elezioni a suffragio allargato gli avevano schiuso per la prima volta le porte del Consiglio Comunale, mentre fino a quel giorno (e contava già quarant'anni!) non era stato chiamato al più umile ufficio nelle pubbliche amministrazioni. Che cosa aveva contribuito a infliggergli quell’inverosimile ostracismo? Certo, l’avversione dei conservatori del vecchio stampo pel fervido liberale, ma insieme la diffidenza dei così detti «uomini serî» verso l’artista; essendo ben noto che per gli uomini serî, abituati a coltivare la sapienza delle scrollatine di capo, delle frasi tronche e dei silenzi gravi di presunta profondità, l’artista che si accalora, che si esalta, che si svia inebriato dietro un fantasma, che discute accani[p. xxvi modifica]tamente per un'idea o per una frase, è di necessità un perdigiorno o forse un rompicollo.

Come li smentì Riccardo Selvatico divenuto Sindaco! Egli, che s'era indotto ad accettare l'alto ufficio solamente dopo lunghe reluttanze, vi portò quell'istintiva armonia di virtù ideali e di praticità che può ben supplire alle lunghe preparazioni tecniche. La cura scrupolosa con la quale fino a quel giorno aveva elaborato le forme dell'arte, la trasferì nella trattazione del pubblici affari; e il poeta si rivelò — inaspettatamente per chi non lo conosceva — amministratore provvido e sagace.

S'era presentato al Consiglio Comunale il 12 maggio 1890, con un eloquente programma di iniziative e di riforme e tenne la parola. L'Amministrazione da lui presieduta affrontò per prima, con moderna larghezza di idee, il problema delle case popolari, dando vita ad una instituzione benefica, che fu imitata altrove, quando la legge intervenne ad agevolare l'opera dei Comuni. Essa migliorò le condizioni dei maestri, non volendo che «i tristi consigli del bisogno spingessero gli educatori del popolo a smentire con l'esempio quanto dovevano insegnare con la parola»; introdusse nella scuola elementare innovazioni geniali; fondò la Scuola professionale femminile; ideò una Scuola superiore di architettura e ne formulò gli statuti, che le vicende elettorali impedirono sfortunatamente di attuare. E fu, infine, concezione e iniziativa personale di Riccardo Selvatico quella grande Mostra internazionale d'Arte, che do[p. xxvii modifica]veva radunare in periodico convegno, sul margine delle lagune, il fiore della produzione estetica contemporanea.

Ma, sopra tutto, egli mirò a vestire di forma aristocratica le aspirazioni popolari. Ateniese d’intelletto, nemico di qualsiasi violenza anche verbale, egli pensava che la dignità dell’espressione è l'indice più persuasivo del rispetto che noi portiamo alle nostre idee. Era convinto che sarebbe stata inutile fatica della storia l'abbattimento dei privilegi del sangue, come inutile sarebbe oggi quella d’infrenare le cupidigie della borsa, per far posto ad una democrazia angusta di cervello e zotica di modi. Tutto serviva a lui — un avvenimento triste o lieto, la morte d’un eminente cittadino, un saluto, un augurio, il varo di una nave, l'inaugurazione di una statua — per proferire qualcuna di quelle nobili parole che rispecchiano la coscienza collettiva quand’è vigile, o la scuotono quand’è assopita. Così anche l’opera di Riccardo Selvatico, sindaco, divenne in certo modo arte e poesia.

Questa poesia operata e vissuta costrinse l’altra a tacere, fuorchè in due occasioni in cui esse s’incontrarono e si porsero fraternamente la mano. Il 1° agosto del 1891, il 22 luglio del 1893, Riccardo Selvatico, intervenuto al banchetto tradizionale che il Comune di Venezia offre ai gondolieri partecipanti alla Regata, vi recitò due liriche, la prima delle quali svelta e vivace ma d’intonazione un po’ comune può essere dimenticata, mentre l’altra rimane indimenticabile per efficacia rappresentativa di pittura e di ritmo. [p. xxviii modifica]

Venezia non è più la Città della gloria e dell'opulenza, ma è forse quella in cui torna più facile ricomporne le immagini, per incanto di luoghi e per suggestione di ricordi. Così la Regata, che a qualche occhio cieco parve uno spettacolo insignificante e a qualche cuore freddo una mascherata, esercita sull'anima un duplice fascino, fantastico e storico. — Una gara che ha secoli di vita: un popolo che segue con ansia le sue vicende: uno scenario monumentale ove ogni pietra custodisce una memoria: uno stuolo natante d'imbarcazioni d'ogni nome e d'ogni forma, da cui emergono flabelli ondeggianti e baldacchini e veli e rostri e strane figure pittoresche curve sui remi: il sole che declinando, trae dalla festa degli uomini una concorde letizia di luci... oh come può l'anima dinanzi a questo spettacolo resistere agli impulsi reconditi del sentimento? e come può la fantasia non rievocare fugacemente i giorni scomparsi?... La stessa quiete languida e sonnolenta in cui si risolve l'orgasmo di quell'ora, l'ombra che viene nereggiando sul Canal grande deserto dopo quello sfolgorio di porpora e d'oro, formano un motivo penetrante di antitesi e di poesia.

Tutto questo dice la lirica di Riccardo Selvatico, che comincia col volo dell'inno, — si delinea e colorisce in una mobile successione di quadri, — per chiudersi con un fervido ritorno all'apostrofe dell'inno: [p. xxix modifica]

          No gh’è ne la storia
          Del mondo una festa
          Più bela, più splendida,
          Venezia, de questa:
          Incanto de popolo,
          De re e imperadori,
          Delizia, martirio
          De artisti e scritori,
          Superba memoria
          De un tempo passà,
          Inutile invidia
          De cento çità!

*

L’Amministrazione democratica cadde nel luglio del 1895, proprio nel momento in cui l’Esposizione internazionale d’arte stava superando vittoriosamente la prima e più difficile prova. Cadde per l’abolizione della preghiera nelle scuole comunali.

Riccardo Selvatico credeva nel divino, anzi si professava spiritualmente cristiano, in quanto il cristianesimo è «una liberazione, non una costrizione dello spirito». Ma l'altezza e la purezza medesima del suo sentimento religioso lo rendevano avverso a qualsiasi intromissione di principî e di riti confessionali così nel campo dell’autorità civile come in quello dell’insegnamento pubblico. Egli reclamava la schietta separazione di quanto appartiene all’ordine delicato della coscienza e della famiglia da quanto compete ai pubblici poteri; e queste idee difendeva dinanzi al Consiglio cittadino con un discorso mirabile per lucidità e nobiltà. [p. xxx modifica]

«Non è — egli diceva — non è in odio alla preghiera, sublime colloquio dell'anima con Dio, ma piuttosto per rispetto verso di essa, che la Giunta credette di sopprimere nelle scuole quelle orazioni non recitate ma vociate in comune, che nessun ammonimento di maestro varrà mai a rendere più reverenti e moralmente più efficaci. La religione domanda ben altro presidio, ben altre garanzie spirituali, da quelle che possa offrirle la nostra Scuola». — Non importa. Riccardo Selvatico era stato accusato di voler «scristianizzare» Venezia e la sua Amministrazione venne travolta.

Allora, pure partecipando assiduamente alle sedute del Consiglio come capo della stremata opposizione, pur tenendo qualche discorso ne' comizi amministrativi e politici, egli tornò con rinnovato amore agli studi prediletti ed all'arte.

Nel maggio del 1897 la parte democratica lo elesse deputato al Parlamento; ma fu questo nella sua vita un intermezzo fugace. Egli passò, si può dire, attraverso alla Camera; vi parlò due volte, ascoltato e approvato; ma agli amici non sapeva nascondere il proprio disagio. Forse era entrato troppo tardi nell'Assemblea legislativa; forse mancava un po' di quella passione che è lo stimolo più efficace all'attività politica, come mancava interamente di quella vanità che può supplire alla scarsa passione; forse il suo spirito critico, che in arte ricercava l'assoluto, il perfetto, non sapeva rassegnarsi a quanto v'ha di relativo e di sommario nell'azione parlamentare, dove [p. xxxi modifica]la così detta verità, la così detta giustizia, non sono troppo spesso che le risultanti approssimative del conflitto di due esagerazioni o di due ingiustizie. E quando, nel maggio del 1900, dopo le battaglie tenaci dell’ostruzionismo, furono bandite le elezioni generali, non accettò più, risolutamente, la candidatura.

*

Egli rivolgeva invece, con maggiore intensità, il pensiero e l’opera a quello ch’era stato il suo primo sogno di poeta, il sogno da cui aveva raccolto un grande trionfo giovanile e tante dolorose perplessità negli anni maturi.

Della letteratura drammatica era venuto seguendo i nuovi indirizzi, che la avviavano verso una concezione più larga e spregiudicata della vita, verso un senso più profondo ed amaro delle cose, verso una analisi più complessa dei caratteri, verso un’integrazione concettuale degli sparsi elementi tratti dalla realtà; aveva assistito, applaudendo, a quella vittoriosa evoluzione onde Giacinto Gallina era stato condotto, attraverso alla lunga crisi, dal romanticismo moraleggiante de La mama no mor mai a La famegia del santolo, questo capolavoro d’arte semplice e di verità umana considerata con sorriso malinconico da una filosofia senza illusioni e senza sarcasmi. La scena riattirava dunque a sè il poeta, non più sindaco. [p. xxxii modifica]

Un verso famoso dell’Adelchi:

          .... Gli estinti, Ansberga,
          Talor dei vivi son più forti assai

aveva particolarmente richiamato la sua attenzione sulla diversa influenza che la memoria dei morti esercita sui vivi e sulla diversa maniera di comportarsi dei vivi rispetto alla memoria dei morti. Intorno ai due motivi egli era venuto raccogliendo un largo materiale psicologico, una folla di osservazioni profonde ed argute, e le aveva atteggiate a forma drammatica o comica. Ora, quest'argomento così originale, così suggestivo, — il solo fra cento altri affrontati e abbandonati, che continuasse insistentemente a tentarlo, — egli lo riprese con ardore e lo trasportò in un mondo ove difetti e virtù hanno una fisionomia scolpita ad alto rilievo: nel mondo dell'arte.

Uno scultore, di ingegno forte e squilibrato, spregiatore di tutte le convenienze della vita, tratta con cinica brutalità la moglie, umile donna ammalata, e s'innamora follemente di un'amica di lei. La moglie muore, egli sposa l'altra con impazienza crudele, ma allora l'immagine della dolente che non è più risorge, gli cresce nella memoria, gli riconquista il cuore, mentre quella stessa immagine si offusca e dilegua in coloro che la amarono o credettero di amarla e che ormai si sono accomodati alle esigenze della nuova vita... Questo il tema, ch'egli voleva incarnare in una azione intensa, appassionata, ricca di movimento, in cui si alternassero di continuo la tristezza e la comicità. [p. xxxiii modifica]

Che cosa avrebbe potuto riuscire l’ultima concezione di Riccardo Selvatico, se la morte non l’avesse miseramente interrotta al cominciare del terzo atto e prima che sui due precedenti egli, lo scrittore inappagabile, avesse esercitato il menomo lavoro di revisione, di coordinazione e di lima? Chi abbia appena senso d’arte, potrà arguirlo da una sola scena: quella magistrale con cui s’apre l’atto secondo. — Gli amici dello scultore vengono ad assistere ai funerali della prima moglie. Parlano sommessi, là, nel piccolo appartamento, presso la stanza della povera morta e attraverso i loro dialoghi voi sentite le cose e le anime; sentite il peso lugubre di quell'ora, il turbamento di quell’intimità spalancata agli estranei, l’egoismo umano che non sa sopportare a lungo le costrizioni della pietà, l'egoismo artistico che in quella casa del dolore va istintivamente alla ricerca d’effetti pittorici: tutta la commedia che viene insinuandosi tra le pieghe della tragedia.

*

Raffrontando alla giocondità de La bozeta de l’ogio, alla gentile emozione de I Recini da festa, lo spirito triste che pervade queste scene, par quasi di assistere, in compendio, all’evoluzione morale del tempo nostro, che cominciò infiorando la vita di ottimismo e finisce giudicandola col sorriso dell’ironia e co! sospiro della pietà. Ma se era mutata la psicologia, non mutavano sostanzialmente i criterî supremi d’arte. Mirare ai [p. xxxiv modifica]maggiori effetti coi piccoli mezzi, obbedire sempre ai freni della misura, servirsi della parola come di un veicolo snello e trasparente dell’idea, non come di fregio vistoso che le si sovrapponga, essere vero senza volgarità, affettuoso senza smancerie, accalorato senza enfasi, comico senza sguajataggine, amaro senza iracondie, fu l’ideale costante di Riccardo Selvatico. Quanto al teatro, ne condannava sempre più gli artifici estrinseci e ne rifuggiva, fino a misconoscere tal volta le imperiose necessità tecniche ed ottiche del palcoscenico; egli avrebbe voluto ridurre la favola all’estrema semplicità, svolgendola in guisa che i suoi momenti e atteggiamenti successivi apparissero determinati soltanto dalla logica interna dei fatti e dei caratteri. Restò sempre osservatore e poeta insieme; e come osservatore, preferì all'espressione generica la scelta delle particolarità caratteristiche, dei piccoli tratti significativi; e come poeta, mirò a sprigionare dall’involucro delle cose osservate l’anima morale ch’esse racchiudono.

La morte gli fu crudele, perchè lo strappò nel vigore dell’età alle dolcezze della famiglia, alla devozione degli amici, e perchè gli tolse di legare alla scena un’altra nobile creazione. Ma gli fu pietosa, risparmiandogli le pene (ch'egli tanto temeva!) di una lunga malattia. Riccardo Selvatico trapassò repentinamente, con un sorriso troncato sulle labbra, dall'intimità domestica all’eterno mistero, nella sua villa di Roncade, il 21 agosto 1901, di ritorno da una seduta di quel Consiglio comunale, dove egli aveva combattuto concitatamente la proposta di aprire una [p. xxxv modifica]scuola presso il macello: quasichè il suo cuore, aperto sempre alla brama e alla ricerca del bene, avesse voluto battere l’ultima volta per un’idea di gentilezza umana e di rispetto all’infanzia!

*

La vita spirituale di Venezia nel periodo di rinnovamento che corre dal 1870 alla fine del secolo fu illustrata da una famiglia di scrittori e d’artisti che io qui non ricorderò, perchè la semplice enumerazione sarebbe troppo fredda, qualche oblio troppo facile e un ponderato giudizio troppo arduo. Ma essa può degnamente riassumersi nei tre nomi coi quali ho esordito: Giacomo Favretto, Giacinto Gallina, Riccardo Selvatico.

Il primo rappresentò schiettamente le sembianze pittoresche dei luoghi e il gaio costume del popolo, riaccendendo nella sua tavolozza una favilla dell’antico sole e nelle sue composizioni un sorriso dell’antica festività. Il secondo velò ad ora ad ora questo sorriso di dolci malinconie, creò una famiglia indimenticabile di tipi nuovi, mescolò alla vita randagia del capocomico i crucci e i tormenti dell’artista moderno. Il terzo, poeta e magistrato cittadino, cantò l'anima mite di Venezia, vestì di parola semplice affetti gentili e concetti severi, fece dell’arte uno strumento di pubblico decoro e di pubblica utilità.

E tre lugubri date resteranno perennemente scolpite nel cuore dei veneziani della mia generazione.

15 giugno 1887. — Sotto le grandi volte ogivali di [p. xxxvi modifica]Santa Maria dei Frari sta una bara coperta di fiori; e diffusa a’ suoi piedi una pioggia di fiori, simboli soavi e tristi di una giovinezza immaturamente caduta. Esce la bara sorretta da braccia fedeli, fra un tacito corteo, nel piazzale inondato di luce; ed ivi la voce tremante di Domenico Morelli porge l’addio supremo all’artista che nella sua candida serenità non aveva nè concepito nè dipinto immagini di tristezza. Giacomo Favretto esulava per sempre dalla sua Venezia.

16 febbraio 1897. — Da una cella mortuaria dell’ospedale, muove, preceduta da un’umile croce, un’altra bara; attraversa le strade, i campi affollati, e giunta ai piedi di un’arguta statua sorridente, le braccia fedeli la innalzano tre volte, ad affermare la parentela ideale dei due spiriti, a dire il cuore di Venezia che abbracciava maternamente i due lontani figliuoli. Giacinto Gallina si ricongiungeva per sempre a Carlo Goldoni.

22 agosto 1901. — Nel silenzio notturno, nel silenzio angosciato dei cuori, arriva ansimando il funebre convoglio: echeggiano le lente armonie della morte; una bara è calata da braccia fedeli, scomparisce sotto una porpora stemmata del leone di San Marco, fra singhiozzi, fra un reclinare di bandiere, fra l’irruenta pietà della moltitudine. Riccardo Selvatico tornava per l’ultima volta alla sua Venezia.

A. Fradeletto.



Note
  1. Riccardo Selvatico era nato a Venezia il 16 aprile 1849.
  2. Giacinto Gallina era nato a Venezia il 3 luglio 1852.
  3. Nato a Venezia l'11 agosto 1849.
  4. Altre non ne conosciamo, fuorchè due sonetti: satira politica il primo, satira municipale il secondo: acuti ed arguti di pensiero, ma troppo.... plastici di parola per essere qui riprodotti.
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